Favorevole agli Alleati e soccorrevole verso gli ebrei, papa Pio XII era
anche revisionista. È proprio il suo scetticismo di revisionista, e non una
comune ignoranza dei fatti, che spiega il suo silenzio sul preteso sterminio
fisico degli ebrei, sulle pretese camere a gas naziste e sui sei milioni di
pretese vittime ebree di ciò che si chiama oggi “l’Olocausto” o “la Shoah”.
Favorevole
agli Alleati, egli è arrivato al punto di farsi intermediario, nel 1940, tra
oppositori tedeschi al regime hitleriano, da una parte, e, dall’altra, la
Francia e la Gran Bretagna. O meglio: nel 1941, dovendo scegliere tra Hitler e
Stalin, egli ha deciso, su richiesta di Roosevelt, di scegliere Stalin. Eppure
l’“Uncle Joe” incarnava quel
comunismo che, quattro anni prima, un’enciclica aveva stigmatizzato come
“intrinsecamente perverso”. Perciò l’esercito tedesco vedeva i propri soldati,
spesso cattolici, e dei cappellani della Wehrmacht
farsi ammazzare all’Est da armi americane fornite ai comunisti con la segreta
benedizione del Papa. I Tedeschi riaprivano le chiese chiuse dai Sovietici ma,
dopo, al processo di Norimberga, si vedranno accusare – in particolare da un
procuratore sovietico – di persecuzione religiosa. In Vaticano nessuno
protesterà contro la criminale pagliacciata giudiziaria di Norimberga.
Soccorrevole
verso gli ebrei, Pio XII ha sempre denunciato il razzismo e l’antisemitismo.
Durante la guerra, è andato in aiuto degli ebrei d’Europa, sia di persona, sia
per il tramite dei suoi rappresentanti. Egli lo ha fatto per via religiosa,
diplomatica, materiale, finanziaria e mediatica (L’Osservatore Romano e Radio Vaticana). Ha denunciato, con allocuzioni pubbliche e sulla carta
stampata, la reclusione di numerosi ebrei in campi o in ghetti, il loro
“progressivo deperimento” nonché le “costrizioni sterminatrici” (le due
espressioni sono in italiano nel testo – N.d.T.) alle quali essi erano
sottoposti. Durante e dopo la guerra gli è stato reso omaggio per la sua azione
a favore degli ebrei tutti da molteplici personalità o istanze ebraiche e
sioniste.
Revisionista e memore della lezione delle
menzogne della prima guerra mondiale sul conto della barbarie teutonica
(bambini dalle mani tagliate, fabbriche di cadaveri, ecc.) è con scetticismo di
buona lega che ha accolto la pletora di racconti cacofonici sulle officine di
morte naziste. Prima di imputare questi crimini ad un Adolf Hitler che
aborriva, egli voleva delle conferme e delle precisazioni. Non gli sono state
fornite e talvolta gli è stato persino risposto che l’evidenza non aveva
bisogno di prove. Allora, con ragione, egli ha deciso di tacere su quelle che
non erano altro che voci infondate.
Il suo
scetticismo in materia si avvicinava, con maggior nettezza ancora, a quello
degli alti dirigenti alleati durante la guerra. Questi ultimi, nelle loro
diatribe antinaziste, biasimavano sicuramente lo “sterminio” degli ebrei, ma
con l’enfasi retorica dei discorsi di guerra, e solo in senso generale e tradizionale;
così per “sterminio” essi intendevano eccessi, maltrattamenti, esecuzioni in
massa, fame. Nell’agosto 1943, essi erano stati sul punto di andare oltre e
parlare di “camere a gas”; ma, a Londra, il Foreign Office e, a Washington, lo
State Department, subissati da propaganda ebraica, decidevano di comune
accordo, il 29 agosto 1943, che le prove erano insufficienti (insufficient evidence) per parlare di
camere a gas omicide. Nello stesso spirito, durante e dopo la guerra, nei loro
discorsi così come nelle loro memorie, Churchill, Eisenhower e de Gaulle si
sono guardati dal menzionare le pretese camere a gas o i pretesi furgoni a gas
dei nazisti.
Oggi,
una certa propaganda ebraica o sionista ingloba in una stessa riprovazione Pio
XII, Roosevelt, Churchill, Stalin, il Comitato internazionale della Croce
Rossa, i vari movimenti di Resistenza, i paesi neutrali e quasi quasi
l’universo intero. Tutti si vedono rimproverare la propria indifferenza o il
proprio silenzio nei confronti del “piccolo popolo che ha tanto sofferto”. I
loro discendenti o successori devono esprimere pubblicamente il proprio
pentimento (techuva), e pagare. A
dire il vero, Pio XII ha dei difensori e, tra questi, degli ebrei. Per loro, se
il Papa ha taciuto sulla loro terribile sorte, è perché “non sapeva”. I
responsabili alleati, aggiungono, non ne sapevano d’altronde di più, donde il
loro silenzio, la loro inazione, il loro rifiuto di bombardare Auschwitz. La
spiegazione è patetica. Essa poggia unicamente su una speculazione. Essa aggrava
il caso di coloro che si cerca di difendere: ne fa dei sordi, dei ciechi o
degli ignoranti.
Se,
per tre o quattro anni, fosse stato perpetrato uno sterminio fisico di tale
ampiezza con dei mezzi così orribili come quei giganteschi mattatoi chimici, proprio
nel cuore dell’Europa (un’Europa trasparente, checché ce ne dicano) e se il
risultato fosse stato la scomparsa di sei milioni di persone (l’equivalente
della popolazione svizzera), si sarebbe saputo e le tracce del crimine
abbonderebbero. In realtà, non è stata trovata neanche una traccia, non è stato
scoperto neanche un documento, e non senza ragione. Il verbale di Wannsee
attesta il contrario di una politica di sterminio, poiché prevede la “rimessa
in libertà” (Freilassung) degli ebrei
alla fine della guerra e la creazione di un’entità ebraica al di fuori
dell’Europa. In compenso, a partire dal 1945, questo preteso massacro
pianificato ha prodotto milioni di ebrei europei che si definiscono “testimoni
viventi del genocidio”, “sopravvissuti” o “miracolati”. Per chi vuole davvero
riflettere, tutto quel mondo costituiva piuttosto, suo malgrado, un insieme
impressionante di “prove viventi” del fatto che non c’era stato, in realtà,
né “Olocausto” né “Shoah”.
Per
i cultori della religione della “Shoah”,
la magica camera a gas è tutto e permette tutto (Céline 1950). Questo mito è la
spada e lo scudo d’Israele. Esso autorizza un potere esorbitante, privilegi,
pressioni, estorsioni e ricatto. Si maneggia “Auschwitz” come un “bastone
morale” (Martin Walser 1998). La prima vittima ne è la Germania vinta; la
seconda è la cristianità che viene offesa; la terza, il mondo arabo-musulmano
che si cerca costantemente di umiliare.
I
successori di Pio XII hanno tentato di opporre una qualche resistenza al
torrente crescente delle esigenze e delle recriminazioni ebraiche fondate sulla
Grande Menzogna. Ma sia Giovanni XXIII che Paolo VI hanno dovuto cedere passo
passo. Quanto a Giovanni Paolo II, giunto al pontificato nel 1978, i suoi
tentativi di resistenza sono durati undici anni. Nel 1989, nel corso
dell’affare delle carmelitane di Auschwitz e della croce di Auschwitz, che lo
vedrà capitolare su tutta la linea di fronte alle pretese ebraiche, egli
ricorda, in un messaggio ai vescovi polacchi, lo sterminio degli ebrei
destinati alle camere a gas. Nel 1990, è recidivo dinanzi ad un gruppo di
Polacchi ricevuti in udienza in Vaticano. Nel 1992 condanna il revisionismo
storico. Nel 1993, riconosce lo Stato d’Israele. Nel 1998, denuncia con parole
testuali “la Shoah, quel piano
efferato di eliminazione di un popolo, che costò la vita a milioni di fratelli
e sorelle ebrei”. Così agendo, egli ha condannato Pio XII, il cui processo di
beatificazione è, per ciò stesso, reso impossibile. E ciò con grande
soddisfazione degli ebrei che, si sa, esigevano l’interruzione di detto
processo.
Per coloro che lo desiderano, il solo
mezzo per riabilitare la memoria del loro “papa oltraggiato” è quello di
parlare il linguaggio della verità verificabile, dell’esattezza storica o,
semplicemente, dei fatti.
Nella
stessa occasione, si darà il caso che essi difenderanno le vittime, che si
contano oggi a miliardi, della “mistificazione del XX secolo” (Arthur Robert
Butz).
https://www.insegnadelveltro.it/il-revisionismo-di-pio-xii__trashed/
Il Revisionismo di Pio XII
Edizioni all'insegna del Veltro, Parma, 2006, 104 p.

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In appendice:
· Un falso: “la preghiera di Giovanni XXIII per gli ebrei”
· Secondo il Talmud, Gesù è immerso, per l’eternità, in escrementi in ebollizione
· Sei domande a Giovanni Paolo II a proposito di Edith Stein
· Una lettera di Henri Roques a Henri Amouroux
Robert Faurisson, nato nel 1929, ha insegnato letteratura francese moderna e contemporanea alla Sorbona; poi, all’Università di Lione 2, ha messo a punto un insegnamento di “critica di testi e documenti (letteratura, storia, mezzi di comunicazione)”.