Scritti revisionisti
(1974-1998)
Con questo titolo, Robert
Faurisson pubblica, in quattro volumi, un’opera di più di duemila pagine
che raccoglie articoli, saggi, studi, recensioni e lettere che egli ha redatto
in venticinque anni di battaglia per la storia. Alcuni di questi scritti sono
già stati pubblicati, qua e là, nel corso degli anni; la maggior parte è
circolata solo come samizdat oppure è
totalmente inedita.
L’opera esce in edizione privata,
fuori commercio e senza indicazione di prezzo. Infatti, le leggi francesi sulla
libertà di stampa (sic) e, in
particolare, la legge Fabius-Gayssot, vietano la diffusione pubblica di scritti
contrari a certe verità concernenti la storia della seconda guerra mondiale.
Nonostante la repressione che si
è abbattuta, in Francia e all’estero, sui revisionisti, Robert Faurisson ha
persistito nel voler far sentire la sua voce nella più viva controversia
storica del nostro tempo.
Robert Faurisson, nato nel 1929, agrégé des lettres, dottore in lettere e scienze umane,
professore all’università di Lyon–II, fu privato della sua cattedra nel 1990
per decisione ministeriale non motivata.
Edizione all’insegna del Veltro, 2005
Edizione all’insegna del Veltro, 2005
In Memoriam
La consuetudine vorrebbe che in
capo a questi Écrits révisionnistes io
ringraziassi, senza distinzione, tutti coloro che mi sono venuti in aiuto nelle
mie ricerche o nella realizzazione dell’opera.
Contrariamente a questa
consuetudine, mi asterrò dal nominare qui i vivi e non nominerò che i morti.
In un periodo in cui designare un
revisionista con il suo nome equivale in qualche modo a denunciarlo alla
polizia del pensiero o alla muta dei media ed esporlo così al rischio di
perquisizioni, sequestri, disoccupazione, ammende o prigione, si comprenderà
che non posso, in coscienza, dedicare la presente opera a nessuno né a nessuna
di coloro che meriterebbero che io esprimessi loro pubblicamente, mentre sono
vivi, la mia gratitudine o la mia ammirazione.
Della coorte di morti che
suggella il revisionismo io non ricorderò qui che qualche nome sotto la cui
ispirazione io ho, per un quarto di secolo, vissuto l’avventura del
revisionismo storico e a cui vorrei esprimere la mia riconoscenza postuma: Jean
Norton Cru (per la prima guerra mondiale), Paul Rassinier, Maurice Bardèche,
Louis-Ferdinand Céline, Albert Paraz, Jean Genet *
e François Duprat. A questi nomi aggiungerò, per la Francia, quelli di Jean
Beaufret e di Michel de Boüard; per l’Austria, quello di Franz Scheidl; per la
Germania, quello di Hellmut Diwald e, per gli Stati Uniti, quello di James
Morgan Read, il primo storico al mondo
che si sia interrogato sulla realtà delle pretese camere a gas naziste, e
questo già nel mese di maggio del 1945,
e al contempo d’altronde – puro incontro di grandi spiriti – l’Inglese George
Orwell.
Io dedico anche queste pagine al
Tedesco Reinhold Elstner che, a Monaco il 25 aprile 1995, si è immolato dandosi
fuoco in segno di protesta contro il «Niagara di menzogne» riversato sul suo
popolo; la polizia tedesca ha, in base a degli ordini, confiscato i mazzi di
fiori deposti sul luogo del sacrificio e proceduto a fermare coloro che, con
questo gesto di compassione, testimoniavano la propria sofferenza.
A rischio di essere mal compreso
da alcuni, dedico anche quest’opera a coloro, tra i vincitori macchiati di
sangue della seconda guerra mondiale, che, come Churchill, Eisenhower o de
Gaulle, hanno rifiutato, sia durante che dopo la battaglia, di avallare, non
fosse che con una parola, l’atroce, grottesca, insolente impostura del preteso
genocidio degli ebrei e delle pretese camere a gas naziste.
Auspico infine che la presente
opera possa iscriversi nel segno di una memoria, non selettiva e tribale, bensì
universale, senza esclusiva alcuna: in
memoriam omnium. Possa essa leggersi anche come un omaggio alle vere sofferenze di tutte le vittime della guerra 1939-1945, siano queste vittime
appartenute al campo dei vincitori, che sono incensati, o a quello dei vinti,
che non si smette, da quasi mezzo secolo, di umiliare ed offendere.
*
Non se ne dispiacciano i mani di Jean-Paul Sartre, Jean Genet non credeva al
genocidio degli ebrei; egli vi vedeva addirittura un’impostura. Per lui, «il
popolo ebraico […] ha fatto credere al genocidio» e lo Stato
d’Israele ha il comportamento di un «demente tra le nazioni» (“Quatre heures à Chatila”; i brani
censurati da La Revue d’études palestiniennes si ritrovano in L’Ennemi déclaré, Gallimard, Parigi
1991, p. 408, n. 30).
*****
INTRODUZIONE A
ÉCRITS RÉVISIONNISTES (1974-1998)
Non
è un revisionista che lo afferma bensì un antirevisionista:
«Negatore dell’Olocausto», «revisionista»,
«negazionista», tutti sanno che cosa significano tali rimproveri. L’esclusione
dall’umanità civile. Se qualcuno è in preda a tali sospetti è annientato. La
sua vita di cittadino è distrutta, la sua reputazione scientifica rovinata.
E aggiunge:
Bisognerà dibattere dello stato dell’opinione pubblica in un paese in cui basta brandire la temibile accusa di negazionismo di Auschwitz [parola per parola: di colpirla con la mazza della menzogna di Auschwitz] per distruggere moralmente, nello spazio di un secondo, uno studioso famoso 1.
CONTRO
LA LEGGE
La presente opera non può essere diffusa. La sua edizione è
privata e fuori commercio. Il suo contenuto infrange la legge.
In Francia, è vietato contestare la Shoah.
Con l’applicazione di una legge del 13
luglio 1990 «sulla libertà di stampa», la Shoah,
nelle sue tre ipostasi – il preteso genocidio degli ebrei, le pretese camere a
gas naziste e i pretesi sei milioni di vittime ebree della seconda guerra
mondiale – è diventata incontestabile pena la prigione da un mese ad un anno,
un’ammenda da Frf 2.000 a 300.000 [€300 a €45.000 circa], il versamento del risarcimento danni e
relativi interessi il cui ammontare può essere considerevole e pena altre
sanzioni ancora. Più precisamente, questa legge vieta di contestare l’esistenza di uno o più «crimini contro l’umanità» come
definiti nel 1945 e puniti nel 1946 dai giudici del Tribunale militare
internazionale di Norimberga, tribunale istituito esclusivamente da vincitori
per giudicare esclusivamente un vinto.
Certo, rimangono autorizzati dibattiti e
controversie sulla Shoah – che è
chiamata anche « Olocausto » – ma nel quadro tracciato dal dogma
ufficiale. Controversie o dibattiti che porterebbero a rimettere in discussione
tutta o parte della Shoah o
semplicemente a revocarla in dubbio sono vietati. Ripetiamo: al riguardo,
persino il dubbio è proscritto, e punito.
L’idea di una tale legge, d’ispirazione
israeliana 2, era stata formulata, in Francia, per la
prima volta nel 1986 da un certo numero di storici d’origine ebraica tra i
quali Pierre Vidal-Naquet, Georges Wellers e François Bédarida, riuniti attorno
al rabbino capo René-Samuel Sirat 3. La legge
fu votata nel 1990 grazie alle iniziative di Laurent Fabius, presidente
dell’Assemblea nazionale ed egli stesso ebreo militante. Nello stesso periodo,
una violazione di tombe nel cimitero ebraico di Carpentras diede luogo ad uno
sfruttamento mediatico che paralizzò, nei deputati e nei senatori
dell’opposizione, ogni velleità di resistenza effettiva al voto di questa
legge. Nella città di Parigi, bandiere israeliane al vento, circa 200.000
manifestanti protestarono contro «il risorgere della bestia immonda». Il
campanone di Notre-Dame fece sentire la sua voce come per un evento
particolarmente tragico o significativo della storia di Francia. Una volta
pubblicata la legge sul Journal officiel de la République française
(la gazzetta ufficiale della repubblica francese – N.d.T.) (con nomina, lo
stesso giorno, di P. Vidal-Naquet all’ordine della Legione d’onore), lo
scandalo di Carpentras non fu più evocato se non di tanto in tanto, come
promemoria. Non restò allora che la legge «Fabius-Gayssot».
A seguito delle pressioni di organizzazioni
ebraiche nazionali ed internazionali, altri paesi adottarono a loro volta, su
modello israeliano e francese, delle leggi che vietavano ogni contestazione
della Shoah. Fu il caso della
Germania, dell’Austria, del Belgio, della Svizzera, della Spagna e della
Lituania. Altri paesi, ancora, del mondo occidentale hanno promesso alle
organizzazioni ebraiche di fare altrettanto, in particolare la Gran Bretagna e
il Canada. Ma, in realtà, una tale legge, di carattere specifico, non è
indispensabile per la caccia al revisionismo storico. In Francia, come in altri
paesi, c’è stato, e a volte resta, l’uso di perseguire i contestatori della Shoah con l’applicazione di altre leggi,
per esempio quelle che reprimono, secondo il caso, il razzismo o
l’antisemitismo, la diffamazione di persone vive, l’oltraggio alla memoria dei
morti, l’apologia di crimine, la propagazione di notizie false e – fonte
d’indennità pecuniarie per i querelanti – il danno ad altrui.
In Francia, poliziotti e giudici
assicurano con rigore la protezione così accordata ad una versione ufficiale
della storia della seconda guerra mondiale. Secondo questa versione rabbinica,
l’evento maggiore del conflitto sarebbe stato la Shoah, altrimenti detto uno sterminio fisico o un tentativo di
sterminio fisico degli ebrei che i Tedeschi avrebbero perpetrato dal 1941-1942
al 1944-1945 (non disponendo di nessun documento – e non senza ragione, poiché
si tratta di fantasia – gli storici ufficiali non propongono altro che delle
date tanto divergenti quanto approssimative).
CARATTERISTICA PARTICOLARE DELLA
PRESENTE OPERA: UNA CRONACA REVISIONISTA
Dal 1974 ad oggi, ho dovuto condurre così
tante battaglie giudiziarie da non aver trovato il tempo di redigere la
relazione dimostrativa che ci si poteva attendere da un universitario che, per
lunghi anni, abbia dedicato le proprie ricerche ad un solo ed unico punto della
storia della seconda guerra mondiale: l’«Olocausto» o la Shoah.
Anno dopo anno, una valanga di processi, dalle più gravi conseguenze, è
venuta a contrastare tutti i miei progetti di pubblicazione di una tale opera.
Oltre ai miei processi personali, ho dovuto dedicare una buona parte del mio
tempo alla difesa, dinanzi ai rispettivi tribunali, di revisionisti francesi e
stranieri. Ancora oggi, nel momento in cui redigo quest’introduzione, mi
attendono personalmente due processi (uno in Olanda e l’altro in Francia)
mentre devo intervenire in maniera diretta o indiretta nei processi di
revisionisti che vivono rispettivamente in Svizzera, Canada ed Australia. Per
mancanza di tempo ho dovuto rifiutare il mio aiuto ad altri revisionisti, in
particolare a due revisionisti giapponesi.
In tutto il mondo, la tattica dei nostri avversari è la stessa:
appellarsi ai tribunali per paralizzare i lavori di ricerca dei revisionisti,
qualora non si riesca ad ottenere la condanna di questi ultimi sia al carcere,
sia al versamento d’ammende o di risarcimenti danni e relativi interessi. Per
il condannato, il carcere comporterà l’interruzione d’ogni attività
revisionista, mentre il versamento di ammende o di risarcimenti danni e
relativi interessi significherà per lui la ricerca febbrile del denaro, una
ricerca stimolata dalle minacce dell’ufficiale giudiziario, le «ordinanze di
sequestro», gli «avvisi a terzi detentori» e il blocco del conto bancario. Solo
da questo punto di vista, la mia vita, in quest’ultimo quarto di secolo, sarà
stata difficile; tale rimane e, con ogni probabilità, tale resterà.
A ciò aggiungiamo, per aggravare la situazione, che la mia concezione
della ricerca non è mai stata quella dell’universitario o dello storico «delle
carte». Ritengo indispensabile recarmi sul posto: sia il sito dell’indagine
materiale, sia il terreno su cui si schiera l’avversario. Io non posso parlare
di Dachau, di Majdanek, di Auschwitz o di Treblinka senza recarmi sul posto per
interrogarvi i luoghi e le persone. Io non posso sentir parlare di un’azione
antirevisionista (manifestazione, conferenza, simposio, processo) senza
recarmici di persona o senza delegarvi un osservatore da me preparato alla
missione; il che non è senza rischio ma permette di ottenere delle informazioni
da fonte appropriata. Io suscito innumerevoli lettere o interventi. Mi porto in
tutte le feritoie. Per fare solo un esempio, io credo di poter dire che, se
l’impressionante conferenza internazionale dell’«Olocausto» organizzata a
Oxford nel 1988 dal miliardario Robert Maxwell (detto «Bob il bugiardo») è, per
ammissione del suo stesso istigatore 4,
pietosamente andata a monte, è grazie ad un’operazione che io ho personalmente
condotto sul posto con l’ausilio di una revisionista francese che non mancava
di coraggio, né d’audacia, né d’ingegnosità: la sua azione, da sola, sarà
certamente valsa più di parecchi libri. Ma i facitori di libri a tutto spiano
comprenderanno forse che cosa sto dicendo qui?
Ai giorni ed alle ore così passati nella preparazione dei processi o in
quelle molteplici azioni tempestive, si aggiungeranno le ore e i giorni perduti
negli ospedali a rimettersi sia dagli effetti di un’estenuante battaglia, sia
dalle conseguenze d’aggressioni fisiche condotte da milizie ebraiche (in
Francia, le milizie armate sono rigorosamente vietate salvo che per la comunità
ebraica).
Infine, ho dovuto ispirare, dirigere o coordinare, in Francia o
all’estero, molteplici azioni o lavori di carattere revisionista, sostenere le
energie vacillanti, assicurare un cambio, rispondere alle chiamate, mettere in
guardia contro le provocazioni, gli errori, le derive, e soprattutto lottare
contro le compiacenze perché, in certi revisionisti, grande è la tentazione, in
una simile battaglia, di cercare un compromesso con l’avversario e, a volte
persino, di ritrattare. Purtroppo non mancano esempi in cui dei revisionisti,
per farla finita, sono sprofondati nel pubblico pentimento. Io non scaglio loro
la pietra. So per esperienza che lo scoraggiamento è in agguato per ognuno di
noi perché la lotta è impari: i nostri mezzi sono irrisori e quelli dei nostri
avversari, immensi.
Poiché necessità fa legge, la presente opera si riduce dunque ad una
scelta di note, di articoli, di saggi, di prefazioni, d’interviste, di
recensioni che ho redatto dal 1974 al 1998 e che sono qui presentati in ordine
cronologico di composizione o di pubblicazione. Il lettore ne trarrà forse
l’impressione di un insieme disparato, punteggiato di molte ripetizioni. Io
sollecito la sua indulgenza. Per lo meno proprio questa diversità gli
permetterà di seguire giorno dopo giorno l’avventura revisionista nelle sue
vicissitudini. Quanto alle ripetizioni, accade che me ne consoli pensando che,
tutto sommato, non mi sono ancora ripetuto abbastanza, poiché persistono oggi
tanti fraintendimenti sull’esatta natura del revisionismo storico.
IL REVISIONISMO STORICO
Il revisionismo storico è una questione di
metodo e non un’ideologia.
Esso preconizza, per ogni ricerca, il ritorno al punto di partenza,
l’esame seguito dal riesame, la rilettura e la riscrittura, la valutazione
seguita da una nuova valutazione, il nuovo orientamento, la revisione, il
rifacimento; esso è, nello spirito, il contrario dell’ideologia. Esso non nega
ma mira ad affermare con maggiore esattezza. I revisionisti non sono dei
«negatori» o dei «negazionisti»; essi si sforzano di cercare e di trovare là
dove, pare, non c’era più niente da cercare né da trovare.
Il revisionismo può esercitarsi in cento attività della vita d’ogni
giorno e in cento campi della ricerca storica, scientifica o letteraria. Esso
non rimette per forza in discussione delle idee acquisite, ma spesso induce a
sfumarle. Esso cerca di districare il vero dal falso. La storia è, per essenza,
revisionista; l’ideologia le è nemica. Siccome l’ideologia non è mai così forte
come in tempo di guerra o di conflitto, e siccome essa produce allora falsità a
iosa per le necessità della propria propaganda, lo storico sarà, in tale
circostanza, indotto a raddoppiare la vigilanza: passando al vaglio dell’esame
ciò che è stato possibile rifilargli come «verità», egli si accorgerà
probabilmente che, là dove una guerra ha provocato decine di milioni di
vittime, la prima di queste sarà stata la verità verificabile: una verità che
si tratterà di cercare e di ristabilire.
La storia ufficiale della seconda guerra mondiale contiene un po’ di
vero combinato con molte falsità.
LA STORIA UFFICIALE:
UN PO’ DI VERO COMBINATO CON MOLTE
FALSITÀ.
I SUOI ARRETRAMENTI SUCCESSIVI DI FRONTE
ALLE AVANZATE
DEL REVISIONISMO STORICO
È esatto dire che la Germania nazionalsocialista ha
creato dei campi di concentramento; essa lo ha fatto dopo – e contemporaneamente
a – molti altri paesi, tutti convinti che questi campi sarebbero stati più
umani della prigione; Hitler vedeva in questi campi ciò che Napoleone III aveva
creduto di vedere nella creazione delle colonie penitenziarie: un progresso per
l’uomo. Ma è falso che la Germania
abbia mai creato dei «campi di sterminio» (espressione coniata dagli Alleati).
È esatto dire che i Tedeschi hanno
fabbricato dei furgoni funzionanti a gas (Gaswagen).
Ma è falso che essi abbiano mai
fabbricato dei furgoni a gas omicidi (se uno solo di questi furgoni fosse
esistito, esso si troverebbe al Museo dell’automobile o nei musei
dell’«Olocausto», se non altro sotto forma di bozzetto di valore scientifico).
È esatto dire che i Tedeschi usavano lo
Zyklon (prodotto a base d’acido cianidrico utilizzato sin dal 1922) per
proteggere con la disinfestazione dagli insetti la salute dei civili, delle
truppe, dei prigionieri o degli internati. Ma
essi non hanno mai impiegato lo Zyklon per uccidere chicchessia e soprattutto
non schiere d’esseri umani; date le drastiche precauzioni d’uso del gas
cianidrico, le pretese gassazioni omicide di Auschwitz o di altri campi
sarebbero state, d’altronde, radicalmente impossibili; io mi dilungo molto su
questo punto nel corpo della presente opera.
È
esatto dire che i Tedeschi concepivano una
«soluzione finale della questione ebraica» (Endlösung der Judenfrage). Ma questa
soluzione era territoriale (territoriale
Endlösung der Judenfrage) e non omicida; si trattava di spingere o, se
necessario, di forzare gli ebrei a lasciare la Germania e la sua sfera
d’influenza in Europa per stabilire, in accordo con i sionisti, un focolare
nazionale ebraico, nel Madagascar o altrove. Molti sionisti hanno collaborato
con la Germania nazionalsocialista per questa soluzione.
È esatto dire che dei Tedeschi si sono riuniti, il 20
gennaio 1942, in una villa in una zona periferica di Berlino (Berlin-Wannsee)
per trattare della questione ebraica. Ma
essi vi hanno progettato l’emigrazione forzata o la deportazione degli ebrei
nonché la futura creazione di una specifica entità ebraica e non un programma
di sterminio fisico.
È esatto dire che dei campi di
concentramento possedevano dei forni crematori per la cremazione dei cadaveri. Ma era per meglio combattere le epidemie
e non per bruciarvi, come si è osato talvolta affermare, degli esseri viventi
oltre ai cadaveri 5.
È esatto dire che gli ebrei hanno
conosciuto le sofferenze della guerra, dell’internamento, della deportazione,
dei campi di detenzione, dei campi di concentramento, dei campi di lavori
forzati, dei ghetti, delle epidemie, delle esecuzioni sommarie per ogni sorta
di ragione; essi hanno anche subito rappresaglie o addirittura massacri, perché
non c’è guerra senza massacri. Ma è
altrettanto vero che tutte queste sofferenze sono toccate anche a molte altre
nazioni o comunità durante la guerra e, in particolare, ai Tedeschi e ai loro
alleati (lasciando da parte le sofferenze dei ghetti, perché il ghetto è in
primo luogo e prima di tutto una creazione specifica degli ebrei stessi 6);
è soprattutto verosimile, per chi non è affetto da memoria emiplegica e per chi
si sforza di conoscere le due facce della storia della seconda guerra mondiale
(la faccia sempre mostrata e la faccia quasi sempre nascosta), che le sofferenze
dei vinti durante la guerra e dopo la
guerra sono state, per numero e qualità, peggiori di quelle degli ebrei e
dei vincitori, soprattutto per quanto riguarda le deportazioni.
È falso che, come si è osato
per molto tempo pretendere, sia esistito un ordine qualunque di Hitler o di uno
dei suoi stretti collaboratori di sterminare gli ebrei. Durante la guerra, dei
soldati e degli ufficiali tedeschi sono stati condannati dalle proprie corti
marziali, e a volte fucilati, per aver ucciso degli ebrei.
È un bene che gli
sterminazionisti (cioè coloro che credono allo sterminio degli ebrei) abbiano
finito, stufi di lottare, col riconoscere che non si trova traccia di alcun
piano, di alcuna istruzione, di alcun documento relativo ad una politica di sterminio
fisico degli ebrei e che, allo stesso modo, essi abbiano infine ammesso che non
si trova traccia di alcun bilancio stanziato per una simile impresa né di un
qualche organismo incaricato di portare a buon fine una tale politica.
È un bene che gli sterminazionisti
abbiano infine concesso ai revisionisti che i giudici del processo di
Norimberga (1945-1946) hanno accettato come veri dei fatti di pura invenzione,
come la storia del sapone fabbricato con il grasso degli ebrei, la storia dei
paralumi fatti di pelle umana, quella delle «teste rimpicciolite», la storia
delle gassazioni omicide di Dachau; e soprattutto è un bene che gli
sterminazionisti abbiano infine riconosciuto che l’elemento più spettacolare,
più terrificante, più significativo di questo processo, cioè l’udienza del 15
aprile 1946, nel corso della quale si è visto e sentito un ex-comandante del
campo di Auschwitz (Rudolf Höss) confessare pubblicamente che, nel suo campo,
erano stati gassati milioni di ebrei, non era che il risultato di torture
inflitte a quest’ultimo. Questa confessione, presentata per tanti anni e in
tante opere storiche come la «prova» n. 1 del genocidio degli ebrei, è ora
relegata nell’oblio, per lo meno dagli storici.
È una fortuna che degli
storici sterminazionisti abbiano infine riconosciuto che la famosa
testimonianza dell’SS Kurt Gerstein, elemento essenziale della loro tesi, è
priva di valore; è odioso che
l’Università francese abbia ritirato al revisionista Henri Roques il suo titolo
di dottore per averlo dimostrato nel 1985.
È penoso che Raul Hilberg, il
papa dello sterminazionismo, abbia osato scrivere, nel 1961, nella prima
edizione di The Destruction of the
European Jews, che erano esistiti due ordini di Hitler di sterminare gli
ebrei, per poi dichiarare, a partire dal 1983, che questo sterminio si era
compiuto da solo, senza alcun ordine né piano ma attraverso un «incredibile
incontro degli spiriti, una trasmissione di pensiero consensuale» in seno alla
vasta burocrazia tedesca. R. Hilberg ha così sostituito l’asserzione gratuita
con la spiegazione magica (la telepatia).
È un bene che gli sterminazionisti
abbiano infine, in pratica, quasi abbandonato l’accusa, corredata da
«testimonianze», secondo la quale esistevano delle camere a gas omicide a Ravensbrück,
ad Oranienburg-Sachsenhausen, a Mauthausen, a Hartheim, nel campo di
Struthof-Natzweiler, in quello di Stutthof-Danzica, a Bergen-Belsen,…
È un bene che la camera a gas nazista più visitata al mondo – quella
di Auschwitz-I – sia stata infine riconosciuta, nel 1995, per ciò che era, cioè
un montaggio. È una fortuna che sia
stato infine ammesso che «LÀ TUTTO È FALSO» e, personalmente, mi rallegro del
fatto che uno storico appartenente all’establishment
abbia potuto scrivere: «Alla fine degli anni ’70, Robert Faurisson sfruttò
tanto meglio queste falsificazioni in quanto i responsabili del museo erano
allora restii a riconoscerle» 7. Io me ne rallegro tanto più in quanto
in fondo la giustizia francese mi aveva, in modo iniquo, condannato per averlo
detto.
È un bene che, nello stesso articolo, lo
stesso storico abbia rivelato che un luminare del mondo ebraico come Théo Klein
non vede in questa «camera a gas» altro che un «artificio».
È altresì un bene che, nello
stesso articolo, lo stesso storico abbia rivelato dapprima che le autorità del
Museo di Auschwitz sono consapevoli di aver ingannato milioni di visitatori
(500.000 all’anno all’inizio degli anni ’90), poi che esse continueranno
nondimeno in futuro ad ingannare i visitatori perché, secondo la vicedirettrice
del museo: «[Dire la verità su questa “camera a gas”] è troppo complicato. Vedremo più
avanti»! 8
È una fortuna che nel 1996 due
storici d’origine ebraica, il Canadese Robert Jan van Pelt e l’Americana
Debórah Dwork, abbiano, finalmente, denunciato alcuni degli enormi imbrogli del
campo-museo di Auschwitz e il cinismo con cui s’ingannano i visitatori 9.
È, invece, inammissibile che
l’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization)
mantenga dal 1979 il patrocinio su un sito come quello di Auschwitz il cui
centro racchiude, in questa falsa «camera a gas» (senza contare altre enormi
falsificazioni), un’impostura ora appurata; l’UNESCO (organizzazione che ha
sede a Parigi e che è diretta da Federico Mayor) non ha il diritto di
utilizzare i contributi dei paesi aderenti per farsi garante di un grande
imbroglio talmente contrario all’«istruzione», alla «scienza» e alla «cultura».
È una fortuna che Jean-Claude Pressac, dopo essere
stato portato alle stelle, sia caduto nel discredito. Portato alla ribalta
dalla coppia Klarsfeld, questo farmacista ha ritenuto intelligente cercare una
posizione intermedia tra coloro che credono alle camere a gas e coloro che non
ci credono. Per lui, in qualche modo, la donna da esaminare non era né incinta
né non incinta ma a metà incinta e addirittura, con il passare del tempo,
sempre meno gravida. Autore di scritti che si presumeva vertessero sulle camere
a gas naziste ma nei quali non si riusciva a trovare né una fotografia
d’insieme, né un disegno d’insieme di uno solo di questi mattatoi chimici, il
penoso pasticcione doveva dare la dimostrazione, il 9 maggio 1995, presso la
XVIIa sezione del tribunale correzionale di Parigi, della sua totale incapacità di
rispondere alle domande della presidente del tribunale su quello che avrebbe
ben potuto essere uno di questi mattatoi. Tre anni dopo, egli è ridotto a
scrivere: «Così, a dire di ex-membri del Sonderkommando,
si desume con grande certezza che sia stato girato un film sulle gassazioni
omicide dalle SS a Birkenau. Perché esso non sarebbe stato ritrovato per caso
nel solaio o nella cantina di un ex-appartenente alle SS?» 10.
È una fortuna che i resti
della «camera a gas», appartenente al Krematorium II di Birkenau
(Auschwitz-II), possano soprattutto servire a dimostrare «in vivo» e «de visu» che
non c’è mai stato «Olocausto», né in questo campo né altrove. Infatti, stando
agli interrogatori di un imputato tedesco e secondo delle fotografie aeree
«ritoccate» dagli Alleati, il tetto di questa camera a gas avrebbe posseduto
quattro aperture speciali (di 25 cm x 25 cm, si precisava) per versare lo
Zyklon. Ora, tutti possono costatare sul posto che nessuna di queste aperture
esiste né è mai esistita. Essendo Auschwitz la capitale dell’«Olocausto» ed essendo
questo crematorio in rovina al centro dello sterminio degli ebrei ad Auschwitz,
io ho potuto dire nel 1994 – e la formula sembra aver fatto strada nelle menti:
«No holes, no “Holocaust”» (Niente
orifizi, niente «Olocausto»).
È altresì una fortuna che sia stata così finalmente invalidata
una pletora di «testimonianze» secondo le quali quelle gassazioni erano
esistite ed è, allo stesso tempo,
estremamente deplorevole che tanti Tedeschi, giudicati dai loro vincitori,
siano stati condannati ed a volte addirittura giustiziati per dei crimini che
essi non avevano potuto commettere.
È un bene che alla luce di
processi che assomigliano a delle farse giudiziarie gli sterminazionisti stessi
emettano dei dubbi sulla validità di molte testimonianze; queste testimonianze
apparirebbero ancora più chiaramente errate se ci si prendesse finalmente la
briga di ordinare delle perizie giudiziarie della presunta arma del presunto
crimine, poiché, in occasione di mille processi riguardanti Auschwitz o altri
campi, nessun tribunale ha ordinato una tale perizia (con la sola eccezione,
assai poco nota, del campo di Struthof-Natzweiler, i cui risultati sono stati
tenuti nascosti fino a quando io li ho rivelati). Si sapeva bene pertanto che
testimonianze o confessioni devono essere circostanziate e verificate e che,
mancando queste due condizioni, esse sono prive di valore probatorio.
È una fortuna che la storia
ufficiale abbia riveduto per difetto – spesso in proporzioni considerevoli – il
supposto numero delle vittime. Ci sono voluti più di quarant’anni di pressioni
revisioniste perché le autorità ebraiche e quelle del Museo di Auschwitz
ritirassero le diciannove targhe che, in diciannove lingue diverse,
annunciavano che il numero delle vittime del campo ammontava a quattro milioni.
Ci sono poi voluti cinque anni di dispute interne perché ci si accordasse sulla
nuova cifra di un milione mezzo, cifra che, in seguito, a sua volta, è stata
ben presto contestata da autori sterminazionisti: J.-C. Pressac, il protetto di
S. Klarsfeld, non propone più, per parte sua, se non la cifra di
600.000-800.000 vittime ebree e non ebree per tutto il periodo in cui è
esistito il complesso di Auschwitz. È un
peccato che questa ricerca della vera cifra non prosegua per raggiungere la
cifra probabile di 150.000 persone, vittime, principalmente, di epidemie in
quasi quaranta campi del complesso di Auschwitz. È deplorevole che, nelle scuole di Francia, si continui a
proiettare il film Nuit et Brouillard dove il
numero dei morti di Auschwitz è fissato a nove milioni; inoltre, in questo film
si perpetua il mito del «sapone fabbricato con i corpi», quello dei paralumi di
pelle umana e quello delle tracce di unghie delle vittime nel cemento delle
camere a gas; s’intende dire che «niente distingueva la camera a gas da un
normale blocco di edifici»!
È un bene che nel 1988 Arno Mayer,
professore d’origine ebraica, docente all’università di Princeton, abbia
all’improvviso scritto: «Le fonti per lo studio delle camere a gas sono allo
stesso tempo rare e dubbie»; ma perché aver affermato per così tanto tempo che
le fonti erano innumerevoli e degne di fede, e perché aver vilipeso i
revisionisti che scrivevano già nel 1950 ciò che Arno Mayer scopriva nel 1988?
È soprattutto un bene che nel 1996 uno
storico, Jacques Baynac, che aveva fatto una sua specialità, anche sul giornale
Le Monde, di trattare i revisionisti da falsari, abbia infine riconosciuto
che non c’è, in definitiva, nessuna prova dell’esistenza delle camere a gas. È,
precisa, «difficile da dire così come da sentire» 11. Forse, in certe circostanze, la verità
è, per alcuni, «difficile da dire così come da sentire» ma, per i revisionisti,
la verità è piacevole a dirsi così come a sentirsi.
È infine una fortuna che gli
sterminazionisti si siano permessi di intaccare il terzo ed ultimo elemento
della trinità della Shoah: la cifra
di sei milioni di morti ebrei. Sembra che questa cifra sia stata portata alla
ribalta per la prima volta 12, circa un anno prima della fine della
guerra in Europa, dal rabbino Michael Dov Weissmandel (1903-1956); insediato in
Slovacchia, questo rabbino è stato l’artefice principale della menzogna di
Auschwitz a partire dalle pretese testimonianze di Slovacchi come Rudolf Vrba e
Alfred Wetzler; egli organizzava delle intense «campagne d’informazione» in
direzione degli Alleati, della Svizzera e del Vaticano. In una lettera del 31
maggio 1944 (la guerra con la Germania è finita l’8 maggio 1945), egli non
esitava a scrivere: «Fino ad oggi, sei volte un milione di ebrei d’Europa e di
Russia sono stati distrutti» 13.
Anche molto tempo prima della fine della guerra, si trova questa cifra
di sei milioni presso l’ebreo sovietico Ilya Ehrenburg (1891-1967) che fu forse
il più astioso propagandista della seconda guerra mondiale 14.
Nel 1979, questa cifra è stata improvvisamente qualificata come «simbolica»
(cioè come falsa) dallo sterminazionista Martin Broszat in occasione del
processo ad un revisionista tedesco. Nel 1961, Raul Hilberg, il più prestigioso
degli storici convenzionali, stimava il numero dei morti ebrei a 5,1 milioni.
Nel 1953, un altro di questi storici, Gerald Reitlinger, aveva proposto una
cifra compresa tra 4,2 e 4,6 milioni. Ma, in effetti, nessuno storico di questa
scuola ha presentato delle cifre fondate su un’indagine; non si tratta che di
calcoli approssimativi soggettivi. Il revisionista Paul Rassinier, per parte
sua, ha avanzato la cifra di un milione circa di morti ebrei, ma partendo,
precisava, da cifre fornite dalla parte avversa; dunque anche qui, si trattava
di un calcolo approssimativo. La verità è che molti ebrei europei sono periti e
molti sono sopravvissuti. Con i moderni mezzi di calcolo, dovrebbe essere
possibile determinare che cosa significhi «molti» in ognuno dei due casi. Ma le
tre fonti alle quali si potrebbero attingere le informazioni necessarie sono,
in pratica, interdette ai ricercatori indipendenti o il loro accesso è
limitato:
- si tratta in primo luogo dell’enorme
documentazione raccolta dal Servizio internazionale di ricerche (SIR) di
Arolsen-Waldeck (Germania), che dipende dal Comitato internazionale della Croce
Rossa (Svizzera) ed il cui accesso è gelosamente controllato da dieci Stati tra
i quali quello d’Israele;
- si tratta poi dei documenti posseduti
dalla Polonia e dalla Russia e di cui solo una parte è stata resa accessibile:
registri mortuari di certi campi, registri delle cremazioni, ecc.;
- si tratta infine dei nomi dei milioni di
sopravvissuti ebrei che hanno percepito o percepiscono delle indennità o
riparazioni finanziarie, sia in Israele, sia in parecchie decine di paesi
rappresentati in seno al Congresso mondiale ebraico. La semplice enumerazione
di questi nomi mostrerebbe a che punto una comunità spesso detta «sterminata»
non è stata affatto sterminata.
Ancora a cinquantadue anni dalla guerra, lo Stato d’Israele valuta
ufficialmente a circa 900.000 il numero dei «sopravvissuti» dell’«Olocausto»
nel mondo (esattamente: tra 834.000 e 960.000) 15.
Secondo una stima dello statistico svedese Carl O. Nordling, al quale io ho
sottoposto questa valutazione del governo israeliano, è possibile, partendo
dall’esistenza di 900.000 «sopravvissuti» nel 1997, concludere che esistessero,
nel 1945, un po’ più di tre milioni di «sopravvissuti» al termine della guerra.
Ancora oggi, pullulano le organizzazioni di «sopravvissuti» sotto le
denominazioni più diverse; esse riuniscono sia ex-«membri della resistenza»
ebrei che ex-bambini di Auschwitz (cioè bambini ebrei nati in questo campo o
internati in tenera età con i genitori), ebrei destinati ai lavori forzati o,
più semplicemente, fuggiaschi o clandestini ebrei. Milioni di «miracolati» non
sono più un «miracolo» ma il prodotto di un fenomeno naturale. La stampa
americana riferisce abbastanza spesso di ricongiungimenti tra sopravvissuti di
una stessa famiglia di cui ogni membro era, ci assicurano, convinto fino a quel
momento che «tutta la sua famiglia» fosse scomparsa.
Riassumendo, nonostante il dogma e nonostante le leggi, la ricerca della
verità storica sulla seconda guerra mondiale in generale e sulla Shoah in particolare ha fatto progressi
in questi ultimi anni; il grande pubblico è tenuto nell’ignoranza di questi
progressi; sarebbe sbalordito nell’apprendere che molte delle sue credenze più
solide sono state, dall’inizio degli anni ’80, relegate dagli storici più
ortodossi nello scaffale delle leggende popolari. Si potrebbe dire che
esistono, da questo punto di vista, due concezioni dell’«Olocausto»: da una
parte, quella del grande pubblico e, dall’altra, quella degli storici
conformisti; l’una sembra incrollabile mentre l’altra minaccia di crollare,
pertanto si procede a delle frettolose riparazioni.
Le concessioni fatte ai revisionisti dagli storici ortodossi, anno dopo
anno, soprattutto a partire dal 1979, sono state così importanti per numero e
qualità che questi storici si trovano oggi in un vicolo cieco. Essi non hanno
più niente da dire di sostanziale sull’argomento stesso dell’«Olocausto». Hanno
passato la staffetta ai cineasti, ai romanzieri, alla gente di teatro. Anche
coloro che si occupano di museografia sono in panne. All’Holocaust Memorial
Museum di Washington è stata presa la «decisione» di non offrire ai visitatori
«nessuna rappresentazione fisica delle camere a gas» (dichiarazione che mi è
stata fatta nell’agosto 1994 da Michel Berenbaum, responsabile scientifico del
museo, in presenza di quattro testimoni, ed autore di un libro-guida di più di
duecento pagine dove, infatti, non si trova nessuna rappresentazione fisica
delle camere a gas, neanche di un misero e fallace plastico pur tuttavia
presentato ai visitatori) 16. I visitatori del museo non hanno il
diritto di scattare fotografie. Claude Lanzmann, autore di Shoah, film che spicca per l’assenza di contenuto storico o
scientifico, non ha oggi più altra risorsa che di pontificare deplorando che «i
revisionisti occupino tutto il campo» 17. Quanto a Elie Wiesel, egli fa appello
alla discrezione di tutti; ci scongiura di non cercare più di vedere da vicino
o d’immaginare cosa succedeva, secondo lui, nelle camere a gas; «Le camere a
gas, è meglio che restino chiuse agli sguardi indiscreti. E all’immaginazione» 18.
Gli storici dell’«Olocausto» si sono tramutati in teorici, in filosofi, in
pensatori. Le loro baruffe tra «intenzionalisti» e «funzionalisti» o persino
tra sostenitori ed avversari di una tesi come quella di Daniel Goldhagen sulla
propensione quasi naturale dei Tedeschi a versare nell’antisemitismo e nel
crimine razzista non riuscirebbero a dissimularci l’indigenza dei loro lavori
propriamente storici.
SUCCESSI ED INSUCCESSI DEL REVISIONISMO
Nel 1998, il bilancio consuntivo dell’impresa
revisionista si colloca come segue: un successo strepitoso sul piano della
storia e della scienza (su questo piano i nostri avversari hanno firmato la
capitolazione nel 1996) ma un insuccesso sul piano della comunicazione (i
nostri avversari hanno bloccato ogni accesso dei revisionisti ai media salvo,
per il momento, alla rete Internet).
Negli anni ’80 e nei primi anni ’90, degli
autori antirevisionisti avevano tentato d’incrociare le spade con i
revisionisti sul terreno della scienza storica. Di volta in volta, Pierre
Vidal-Naquet, Nadine Fresco, Georges Wellers, Adalbert Rückerl, Hermann
Langbein, Eugen Kogon, Arno Mayer o Serge Klarsfeld (quest’ultimo con l’aiuto
del farmacista Jean-Claude Pressac) avevano cercato di far credere ai media che
era stata trovata una risposta alle argomentazioni materiali o documentarie dei
revisionisti. Persino Michael Berenbaum, persino l’Holocaust Memorial Museum
avevano, nel 1993 ed all’inizio del 1994, voluto raccogliere la sfida che io
avevo lanciato di mostrarci non foss’altro che una sola camera a gas nazista e
non foss’altro che una sola prova, a loro scelta, che era esistito un genocidio
degli ebrei. Ma i loro fallimenti sono stati così cocenti che hanno dovuto
progressivamente abbandonare la lotta su questo terreno. Proprio di recente,
nel 1998, M. Berenbaum ha effettivamente pubblicato una ponderosa opera
intitolata: The Holocaust and History 19; ma, precisamente, lungi dallo
studiarvi ciò che egli chiama l’«Olocausto» a livello della storia (cosa che
aveva espressamente tentato A. Mayer nel 1988), ci mostra piuttosto, senza
volerlo, che l’«Olocausto» è una cosa e la «Storia» tutt’altra cosa.
D’altronde, l’opera è quasi immateriale. Non contiene né una fotografia, né un
disegno, né il minimo tentativo di rappresentare fisicamente una qualunque
realtà. Solo la copertina dell’opera dà a vedere… un mucchio di scarpe. Si
suppone che queste scarpe siano eloquenti come all’Holocaust Memorial Museum di
Washington dove esse ci sembrano dire: «We
are the shoes, we are the last witnesses» (Noi siamo le scarpe, siamo gli
ultimi testimoni). L’opera non è altro che un insieme di cinquantacinque
contributi scritti e pubblicati sotto l’alta sorveglianza del rabbino Berenbaum;
anche Raul Hilberg, anche Yehuda Bauer, anche Franciszek Piper ivi rinunciano
ad ogni vero e proprio sforzo di ricerca scientifica ed ivi è pronunciato
l’anatema contro un Arno Mayer che, in un recente passato, aveva tentato di
ricollocare l’«Olocausto» nella storia 20.
L’irrazionale ha avuto la meglio sui tentativi di razionalizzazione. E. Wiesel,
C. Lanzmann, Steven Spielberg (con un film, Schindler’s
List, ispirato da un romanzo), hanno infine trionfato su coloro che, nel
proprio campo, cercavano di provare l’«Olocausto».
Il futuro mostrerà in
retrospettiva che è stato nel settembre 1996 che è suonata la campana a morto
per le speranze di coloro che avevano voluto combattere il revisionismo sul
terreno della scienza e della storia. I due lunghi articoli pubblicati in quel
periodo dallo storico antirevisionista J. Baynac su un giornale elvetico hanno
definitivamente chiuso il capitolo dei tentativi di risposta razionale alle
argomentazioni dei revisionisti 21.
A metà e alla fine degli
anni ’70, io avevo apportato il mio contributo allo sviluppo del revisionismo;
avevo allora scoperto e formulato ciò che si è, da allora, convenuto di
chiamare l’argomentazione fisico-chimica, cioè le ragioni fisiche e chimiche
per le quali le pretese camere a gas naziste erano semplicemente inconcepibili.
A quel tempo, mi vantavo di aver portato alla luce un’argomentazione decisiva
che non era stata fino a quel momento esposta né da un chimico tedesco (la
Germania non manca di chimici), né da un ingegnere americano (gli Stati Uniti
possiedono degli ingegneri che, viste le drastiche complicazioni richieste per
la costruzione di una camera a gas nei penitenziari del loro paese, avrebbero
dovuto rendersi conto che era impossibile fabbricare le pretese camere a gas
naziste per ragioni fisico-chimiche). Se in quel periodo, nel bel mezzo del
chiasso provocato dalla mia scoperta, un indovino mi avesse predetto che,
vent’anni dopo, verso il 1994-1996, i miei avversari, dopo parecchi tentativi
di mostrare che io ero in errore, si sarebbero rassegnati, come ha fatto J.
Baynac, a riconoscere che in fin dei conti non esiste la minima prova della
realtà di una sola camera a gas nazista, io me ne sarei certamente rallegrato.
E ne avrei forse concluso che il mito dell’«Olocausto», colpito al cuore, non
sarebbe sopravvissuto, che i media
avrebbero abbandonato il servizio della Grande Menzogna e che, in modo del
tutto normale, la repressione antirevisionista si sarebbe estinta da sola.
Avrei commesso qui un
errore di diagnosi e di prognosi allo stesso tempo. Perché le credenze
superstiziose vivono di una vita diversa da quella della scienza. Esse vanno
per la loro strada. Il mondo della religione, dell’ideologia, dell’illusione,
dei media e del cinema di fantasia può svilupparsi al di fuori delle realtà
scientifiche. Nemmeno Voltaire è mai riuscito a «schiacciare l’infame». Così si
potrebbe dire che, come Voltaire nel denunciare le assurdità dei racconti
ebraici, i revisionisti sono condannati, nonostante il carattere scientifico
dei loro lavori, a non prevalere mai sulle elucubrazioni della Sinagoga;
tuttavia essa, la Sinagoga, non riuscirà mai a soffocare la voce dei
revisionisti. La propaganda dell’«Olocausto» e lo «Shoah-Business» continueranno a prosperare. Resta oggi ai
revisionisti di mostrare come queste credenze, questo mito, siano riusciti a
nascere, crescere, poi a prosperare prima, forse, di scomparire per lasciare il
posto, un giorno, non alla ragione ma ad altre credenze e ad altri miti.
Come vengono ingannati
gli uomini e perché essi stessi s’ingannano così volentieri?
LA PROPAGANDA DELL’«OLOCAUSTO»: MOSTRARE DEI
MORTI E PARLARE DI MORTI AMMAZZATI,
MOSTRARE DEI FORNI CREMATORI
E PARLARE DI CAMERE A GAS
È con la manipolazione
delle immagini che è più facile trarre in inganno le masse. Sin dall’aprile
1945, dei giornalisti britannici ed americani si sono affrettati, all’apertura
dei campi di concentramento tedeschi, a fotografare o a filmare degli orrori
veri di cui si sono poi fatti, se così si può dire, degli orrori più veri del
naturale. Nel linguaggio popolare caro al mondo della stampa, è stato fatto «un
bidone»; ci è stato fornito un po’ di «Timisoara» ante litteram 22. Da una
parte, ci sono stati mostrati dei morti veri nonché degli autentici crematori;
dall’altra, grazie a dei commenti fallaci e ad una messa in scena
cinematografica, si è proceduto ad un abile raggiro il cui risultato può essere
sintetizzato in una formula atta a servire da sesamo per la scoperta di tutte
queste imposture: «Siamo stati
indotti a prendere dei morti per dei morti ammazzati e dei forni crematori per delle camere a gas omicide». Verrebbe voglia di aggiungere: «…e lucciole per lanterne».
Così è nata la
confusione, ancora tanto diffusa ai giorni nostri, tra, da una parte, i forni
crematori, che sono realmente esistiti (ma non a Bergen-Belsen) per servire
alla cremazione dei morti, e, dall’altra, le camere a gas naziste che, esse,
sarebbero servite ad uccidere frotte di uomini e donne, ma che non sono, in
realtà, mai esistite né sono potute esistere.
Il mito, sotto la sua
forma mediatica, delle camere a gas naziste associate a dei forni crematori
trova il suo punto di partenza nelle immagini e nei commenti della stampa
riguardo a un campo – Bergen-Belsen – che, persino secondo il parere degli
storici ortodossi, non possedeva né camere a gas omicide e nemmeno dei semplici
forni crematori.
DELLE «CAMERE A GAS» MAI VISTE, MAI MOSTRATE
Nel marzo 1992, a
Stoccolma, durante una conferenza stampa, io lanciavo una sfida alla platea di
giornalisti della carta stampata e della televisione. Questa sfida era
racchiusa in poche parole: «Mostratemi o disegnatemi una camera a gas nazista!»
L’indomani i giornalisti
riportavano la conferenza stampa ma ne passavano sotto silenzio l’oggetto
essenziale: precisamente, questa sfida. Essi avevano cercato delle fotografie e
non ne avevano trovate.
Miliardi di uomini, in
questo mezzo secolo, s’immaginano (o si sono immaginati) di aver visto delle
camere a gas naziste sui libri o in documentari. Molti si sono convinti di
essersi, almeno una volta nella loro vita, imbattuti nella fotografia di una
simile camera a gas. Alcuni hanno visitato Auschwitz o altri campi dove le
guide hanno spiegato loro che tale locale era stato una camera a gas. Si è
detto loro che avevano sotto gli occhi una camera a gas, secondo il caso, «allo
stato originario» o «allo stato di ricostruzione» (implicando quest’ultima
formula che detta ricostruzione è fedele e conforme all’originale). Talvolta,
dei resti sono stati designati loro come «resti di una camera a gas» 23. Ora, in ogni caso, essi sono stati
ingannati o, meglio, si sono ingannati da soli. Questo fenomeno si spiega
facilmente. Troppe persone s’immaginano che una camera a gas possa ridursi ad
un vano qualunque con dentro del gas. Equivale a confondere una gassazione per
un’esecuzione capitale con una gassazione suicida o accidentale. Una gassazione
per un’esecuzione capitale, come negli Stati Uniti per mettere a morte un solo
condannato, presenta necessariamente una temibile complessità perché, in questo
caso, bisognerà badare ad uccidere senza provocare incidenti e senza mettere in
pericolo la propria vita o quella delle persone che stanno intorno, soprattutto
nella fase finale, cioè quando bisognerà penetrare nel locale per manipolarvi
un cadavere contaminato ed estrarlo dalla camera a gas. Questo, la maggior
parte dei visitatori di musei, nonché la maggior parte dei lettori, la maggior
parte degli spettatori di film e persino la maggior parte degli storici lo
ignorano manifestamente. I responsabili dei musei, da parte loro, traggono
profitto da quest’ignoranza generale. A guisa di camera a gas nazista, basta
loro presentare al bravo pubblico un locale dall’apparenza lugubre, una cella
frigorifera d’obitorio, una stanza docce (situata di preferenza in un sotterraneo),
un rifugio antiaereo (dotato di una porta con spioncino) e il gioco sarà fatto.
Gli imbroglioni possono accontentarsi di meno: basta loro far vedere una
semplice porta, un muro, un tetto di una pretesa «camera a gas». Gli
imbroglioni più avveduti si accontenteranno di ancor meno: mostreranno un
fagotto di capelli, un cumulo di scarpe, un mucchio d’occhiali e pretenderanno
che si tratta delle sole tracce o vestigia dei «gassati» che siano state
ritrovate; ovviamente, si guarderanno dal ricordare che, durante la guerra e il
blocco economico, in un’Europa in preda alla carestia e alla penuria, si
procedeva al «ricupero», poi al «riciclaggio» di qualsiasi materiale
trasformabile, compresi i capelli, che, per parte loro, servivano, per esempio,
per confezionare indumenti.
TESTIMONI DELL’ «OLOCAUSTO»:
TESTIMONIANZE NON VERIFICATE
A proposito dei
testimoni regna la stessa confusione. Ci presentano delle coorti di testimoni
del genocidio degli ebrei. A parole o con gli scritti, questi testimoni pretendono
di attestare che la Germania eseguiva un piano di sterminio generale degli
ebrei in Europa. In realtà, questi testimoni possono soltanto attestare la
realtà della deportazione, quella dei campi di detenzione, dei campi di
concentramento o dei campi di lavori forzati, e persino, in qualche caso, del
funzionamento dei forni crematori. Gli ebrei erano così poco votati allo
sterminio o alle camere a gas omicide, che ciascuno di questi innumerevoli
testimoni sopravvissuti o superstiti, lungi dal costituire, come ci si vuole
far credere, una «prova vivente del genocidio», è, al contrario, una prova vivente del fatto che non c’è stato
genocidio. Come si è visto sopra, alla fine della guerra il numero dei
«sopravvissuti» ebrei all’«Olocausto» superava probabilmente la cifra di tre
milioni.
Per il solo campo di
Auschwitz, è considerevole l’elenco degli ex-internati ebrei che, sullo
sterminio degli ebrei in questo campo, hanno portato una testimonianza pubblica
a parole o con gli scritti, alla televisione, sui libri, dinanzi ai tribunali.
Tra i più noti, citiamo:
Odette Abadie, Louise Alcan, Esther Alicigüzel, Jehuda Bacon, Charles Baron,
Bruno Baum, Charles-Sigismond Bendel, Maurice Benroubi, Henri Bily, Ada Bimko,
Suzanne Birnbaum, Eva Brewster, Henry Bulawko, Robert Clary, Jehiel Dinour
alias K. Tzetnik, Szlama Dragan, Fania Fénelon, Arnold Friedman, Philip
Friedman, Michel Gelber, Israël Gutman, Dr. Hafner, Henry Heller, Benny
Hochman, Régine Jacubert, Wanda Jakubowska, Stanislas Jankowski alias Alter
Fajnzylberg, Simone Kadosche, Raya Kagan, Rudolf Kauer, Marc Klein, Ruth
Klüger, Guy Kohen, Erich Kulka, Simon Laks, Hermann Langbein, Leo Laufer, Sonia
Letwinska, Renée Louria, Henryk Mandelbaum, Françoise Maous, Mel Mermelstein,
Ernest Morgan, Filip Müller, Flora Neumann, Anna Novac, Miklos Nyiszli, David
Olère, Dounia Ourisson, Dov Paisikovic, Gisella Perl, Samuel Pisar, Macha
Ravine-Speter, Jérôme Scorin, Georges Snyders, Henri Sonnenbluck, Jacques
Stroumsa, David Szmulewski, Henri Tajchner, Henryk Tauber, Sima Vaïsman, Simone
Veil nata Jacob, Rudolf Vrba, Robert Weil, Georges Wellers…
Tra gli ultimi arrivati,
citiamo anche il caso clamoroso del clarinettista Binjamin Wilkomirski. Non si
sa bene perché, questo falso testimone è stato pubblicamente smascherato dopo
tre anni di una gloria che gli era valsa, negli Stati Uniti, il National Jewish
Book Award; in Gran Bretagna, il Jewish Quarterly Literary Prize; in Francia,
il premio Mémoire de la Shoah, nonché un’impressionante serie d’articoli
ditirambici sulla stampa di tutto il mondo. La sua pretesa autobiografia di
bambino deportato a Majdanek e ad Auschwitz (?) era uscita da Suhrkampf nel
1995 con il titolo di: Bruchstücke. Aus
einer Kindheit, 1939 bis 1948 (Frantumi.
Un’infanzia. 1939-1948, Mondadori 1998). In Francia, il libro era stato
pubblicato da Calmann-Lévy nel 1997 con il titolo Fragments d’une enfance, 1939-1948. Al termine della sua inchiesta,
un autore ebreo, Daniel Ganzfried, rivelava che Binjamin Wilkomirski, alias
Bruno Doessekker, nato Bruno Grosjean, aveva di certo conosciuto Auschwitz e
Majdanek ma solo dopo la guerra, da turista 24.
Nel 1995, l’Australiano Donald Watt aveva, anche lui, tratto in inganno i
grandi media di lingua inglese con la sua pretesa testimonianza di «autista»
dei crematori II e III di Auschwitz–Birkenau 25.
Nel settembre-novembre 1998, in Germania ed in Francia, si organizzava anche
una vasta operazione mediatica attorno a delle improvvise «rivelazioni» del Dr.
Hans Wilhelm Münch, ex-medico SS di Auschwitz. La vena è proprio inesauribile.
Primo Levi, dal canto
suo, tende ad esserci presentato ancora oggi come un testimone degno di fede.
Si vedrà nella presente opera che questa reputazione era forse meritata nel
1947 all’uscita del suo libro Se questo è
un uomo; purtroppo, P. Levi l’ha, in seguito, demeritata. Elie Wiesel resta
incontestabilmente «il grande testimone falso» dell’«Olocausto». Nell’opera La Notte, racconto autobiografico, egli
non menziona le «camere a gas»; per lui, i Tedeschi gettavano gli ebrei in
fornaci; addirittura il 2 giugno 1987, al processo Barbie, testimonierà sotto
giuramento di aver «visto, in un boschetto, da qualche parte all’interno di [Auschwitz]-Birkenau,
dei bambini vivi che alcune SS gettavano nelle fiamme». Nella presente opera,
si noterà come il traduttore e l’editore della versione tedesca di La Notte abbiano resuscitato le «camere
a gas» nel racconto di E. Wiesel. In Francia, Fred Sedel agirà allo stesso modo
e metterà nel 1990, nella riedizione di un libro pubblicato nel 1963, delle
«camere a gas» là dove non aveva menzionato, ventisette anni prima, che dei
«forni crematori» 26.
Saranno ridotte nelle
stesse condizioni di «pietose bugie» le testimonianze di certi non ebrei e, in
particolare, del generale André Rogerie che, forte dell’appoggio che gli
concedeva Georges Wellers, si presentava nel 1988 come «testimone
dell’Olocausto» che aveva «assistito alla Shoah
a Birkenau» 27 mentre, nell’edizione originale delle
sue memorie, Vivre, c’est vaincre,
pubblicata nel 1946, egli diceva solamente di aver sentito parlare delle «camere a gas» 28.
Il nostro eroe godeva proprio nel campo di Auschwitz-Birkenau di una sorte
privilegiata. Egli era insediato nel blocco dei caïd 29 ed ivi beneficiava di
una «pacchia da re» di cui «conserva dei buoni ricordi» 30.
Lì mangiava crêpe alla marmellata e
giocava a bridge 31. Certo, scriveva, «[nel
campo]
non accadono solo fatti allegri» 32 ma, al
momento di lasciare Birkenau, ha quest’intuizione: «Contrariamente a molti
altri, io lì sono stato meno infelice che da qualsiasi altra parte» 33.
Samuel Gringauz aveva
passato la guerra nel ghetto di Kaunas (Lituania). Nel 1950, cioè in un periodo
in cui ci si poteva ancora esprimere con una certa libertà sull’argomento, egli
redigeva il bilancio della letteratura dei sopravvissuti della «grande
catastrofe ebraica». Egli deplorava allora in questa letteratura i misfatti del
«complesso iperstorico» (hyperhistorical
complex) o complesso del soprappiù rispetto alla storia. Egli scriveva:
Si può descrivere il
complesso iperstorico come giudeocentrico,
lococentrico ed egocentrico. Esso non trova essenzialmente significato storico se
non per dei problemi ebraici legati ad eventi locali, e ciò sotto l’aspetto di
un’esperienza personale.
È la ragione per cui, nella
maggior parte dei ricordi e dei racconti, si ostentano una verbosità assurda,
l’esagerazione dello scribacchino, gli effetti scenici, una presuntuosa
inflazione dell’ego, una filosofia da dilettante, un lirismo preso a prestito,
voci non verificate, distorsioni, attacchi di parte e discorsi pietosi 34.
Non si può far altro che
sottoscrivere a questo giudizio che, formulato nel 1950, varrebbe oggi
idealmente per un Claude Lanzmann o un Elie Wiesel. Per il «complesso
iperstorico» di quest’ultimo, per il carattere «giudeocentrico, lococentrico ed
egocentrico» dei suoi scritti, ci si potrà richiamare ai due volumi delle sue
memorie: Tutti i fiumi vanno al mare (vol.
1), … e il mare non si riempie mai (vol.
2). Ci si renderà conto, d’altronde, che, lungi dall’essere stati sterminati,
gli ebrei rumeno-ungheresi della sola cittadina di Sighet sono verosimilmente
sopravvissuti in gran numero alla deportazione, in particolare verso Auschwitz,
nel maggio-giugno 1944. Originario di questa città di Sighet, E. Wiesel ha
subito la sorte comune. Dopo la guerra, il suo peregrinare l’ha portato in
varie parti del mondo dove, per effetto di un susseguirsi di «miracoli», ha
incontrato un numero stupefacente di parenti, di amici, di vecchi conoscenti o
di altre persone di Sighet che erano sopravvissuti ad Auschwitz o
all’«Olocausto».
PANORAMICA DI ALTRE MISTIFICAZIONI
DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Ancora altrettanto
perplesse, le generazioni future si porranno delle domande identiche su molti
altri miti della seconda guerra mondiale oltre a quello delle camere a gas
naziste: oltre a quello del «sapone ebreo», delle pelli umane conciate, delle
«teste rimpicciolite» e dei «furgoni a gas» menzionati in precedenza, citiamo i
dissennati esperimenti medici attribuiti al dottor Mengele, gli ordini di Adolf Hitler
per intraprendere lo sterminio degli ebrei, l’ordine di Heinrich Himmler per
far cessare questo sterminio, gli stermini di ebrei per mezzo dell’elettricità,
del vapore acqueo, con l’impiego della calce viva, in forni crematori, in fosse
di cremazione, con pompe a vuoto; citiamo anche il preteso sterminio degli
zingari e degli omosessuali o la pretesa gassazione degli alienati mentali.
Quelle generazioni
future s’interrogheranno su molti altri argomenti: i massacri sul fronte
dell’Est come riferiti per iscritto, e solo per iscritto, al processo di
Norimberga dal falso testimone professionista Hermann Gräbe; le imposture ora
appurate come il libro Hitler m’a dit,
firmato da Hermann Rauschning, dovuto, in gran parte, all’ebreo ungherese Imre
Révész, alias Emery Reves, e pertanto abbondantemente utilizzato al processo di
Norimberga come se fosse stato autentico; la possibile sperimentazione di una
bomba atomica per eliminare degli ebrei vicino ad Auschwitz, menzionata al
processo di Norimberga; le «confessioni» aberranti estorte a prigionieri
tedeschi; il preteso diario di Anna Frank; il ragazzino del ghetto di Varsavia
presentato come se andasse alla morte mentre è verosimilmente emigrato a New
York dopo la guerra; e tanti falsi memoriali, falsi racconti, false
testimonianze, false attribuzioni di cui, con un minimo d’attenzione, era
facile individuare la vera natura.
Ma è probabile che
quelle stesse future generazioni si stupiranno soprattutto del mito instaurato
e reso sacro dal processo di Norimberga (e, in misura minore, dal processo di
Tokyo): quello dell’intrinseca barbarie dei vinti e dell’intrinseca virtù dei
vincitori che pertanto, a guardare da vicino, hanno commesso degli orrori ben
più sorprendenti, in fatto di qualità come di quantità, di quelli perpetrati
dai vinti.
UNA CARNEFICINA UNIVERSALE
Nel momento in cui si
finisca per credere che solo gli ebrei hanno davvero sofferto durante la
seconda guerra mondiale e che solo i Tedeschi si sono comportati da veri e
propri criminali, è d’uopo ritornare sulle vere sofferenze e i veri e propri
crimini di tutti i belligeranti.
«Giusta» o «ingiusta»,
ogni guerra è una carneficina e persino una gara di carneficina, e ciò
nonostante l’eroismo di molti combattenti; sicché alla fine del conflitto il
vincitore non è più altro che un buon carnefice, e il vinto, un cattivo
carnefice. Il vincitore può allora infliggere al vinto una lezione di
carneficina ma non dovrebbe essere autorizzato ad impartirgli una lezione di
diritto o di giustizia. È pertanto ciò che al processo di Norimberga
(1945-1946) i quattro grandi vincitori, agendo a nome loro e in nome di
diciannove potenze vittoriose (senza contare il Congresso mondiale ebraico che
beneficiava dello status di amicus curiae,
cioè di «amico della corte»), hanno avuto il cinismo di fare nei confronti di
un vinto ridotto ad una totale impotenza.
Secondo Nahum Goldmann,
presidente del Congresso mondiale ebraico e presidente dell’Organizzazione
sionista mondiale, l’idea del processo è uscita dritto dritto da alcuni cervelli
ebrei 35. Quanto al ruolo degli ebrei nel
processo stesso di Norimberga, esso è stato considerevole. La delegazione
americana, che conduceva tutto l’affare, era largamente composta da
«reimmigranti», cioè da ebrei che, dopo aver lasciato la Germania negli anni
’30 per emigrare negli Stati Uniti, erano ritornati in Germania. Il famoso
psicologo G. M. Gilbert, autore di Nuremberg
Diary (1947), che lavorava sotto banco con il pubblico ministero americano,
era ebreo e non perdeva l’occasione, a modo suo, per praticare la tortura
psicologica sugli accusati tedeschi. In un libro che reca la prefazione di Lord
Justice Birkett, membro del collegio giudicante, Airey Neave, addetto alla
delegazione britannica, constatava che gli inquirenti americani erano «in gran parte
tedeschi di nascita e tutti d’origine ebraica» 36.
Per delle ragioni che mi
si vedrà esporre nella presente opera, si può ritenere che in questo secolo il
processo di Norimberga sia stato il crimine dei crimini. Le sue conseguenze si
sono rivelate tragiche. Esso ha accreditato una somma esorbitante di menzogne,
di calunnie e d’ingiustizie che, a loro volta, sono servite a giustificare
abomini d’ogni tipo, a cominciare dai crimini dell’espansionismo bolscevico o
sionista a spese dei popoli d’Europa, d’Asia e della Palestina.
Ma, siccome i giudici di
Norimberga hanno, in primo luogo e prima di tutto, condannato la Germania per
la sua responsabilità unilaterale nel preparare e scatenare la seconda guerra
mondiale, è questo punto che dobbiamo esaminare per primo.
QUATTRO GIGANTI E TRE NANI: CHI HA VOLUTO LA GUERRA?
Poiché la storia è in
primo luogo un fatto di geografia, consideriamo un planisfero dell’anno 1939 e
segniamo su di esso con un solo colore quattro immensi blocchi: la Gran
Bretagna con il suo impero che occupava un quinto del globo «sul quale non
tramontava mai il sole», la Francia con il suo vasto impero coloniale, gli
Stati Uniti e i loro vassalli e, infine, l’impressionante impero dell’Unione
delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; poi, con un altro colore, segniamo la
modesta Germania entro le sue frontiere d’anteguerra, l’esile Italia ed il suo
piccolo impero coloniale e, infine, il Giappone i cui eserciti, a quel tempo,
occupavano una parte del territorio cinese. Lasciamo da parte i paesi che si
sarebbero schierati, almeno provvisoriamente, a fianco dell’uno o dell’altro di
questi due gruppi di belligeranti.
Il contrasto, per quanto
riguarda questi due gruppi, colpisce in primo luogo dal punto di vista della
superficie, poi da quello delle risorse naturali, industriali e commerciali.
Certo, alla fine degli anni ’30, la Germania e il Giappone cominciavano – come
lo dimostrerebbe il dopoguerra – a scuotere il giogo e a forgiarsi un’economia
e un esercito capaci d’inquietare delle nazioni più grandi e più forti di loro.
Certo, i Tedeschi e i Giapponesi dispiegavano una somma d’energia non comune e,
durante i primi anni di guerra, conquistavano degli effimeri imperi. Ma,
considerando il tutto, la Germania, l’Italia e il Giappone non erano, per così
dire, che dei nani paragonati a quei quattro giganti che erano gli imperi
britannico, francese, americano e sovietico.
A chi si farà credere
che alla fine degli anni ’30 i tre nani cercassero deliberatamente, come si è
preteso al processo di Norimberga e al processo di Tokyo, di provocare una
guerra mondiale? E chi oserà affermare che nel 1945, quando la battaglia è
terminata, i quattro giganti avevano commesso meno orrori dei tre nani? Meglio:
chi crederà per un solo istante che, nella carneficina generalizzata, il primo
di questi tre nani (la Germania) si sia reso colpevole di tutti i crimini
possibili ed immaginabili mentre il secondo (il Giappone) è rimasto assai
indietro rispetto al primo e il terzo (l’Italia), passato nel settembre 1943
all’altro campo, non ha commesso alcun atto veramente reprensibile? Chi
accetterà l’idea che i quattro giganti non hanno, per riprendere la
terminologia di Norimberga, commesso alcun «crimine contro la pace», alcun
«crimine di guerra» né alcun «crimine contro l’umanità» che abbia meritato,
dopo il 1945, di essere giudicato da un tribunale internazionale?
È pertanto facile
mostrare, con prove alla mano, che i vincitori hanno, in sei anni di guerra e
in pochi anni del dopoguerra, accumulato più orrori dei vinti in fatto di
massacri di prigionieri di guerra, di massacri di popolazioni civili, di
deportazioni gigantesche, di saccheggi sistematici e d’esecuzioni sommarie o
giudiziarie. Katyn, il Gulag, Dresda, Hiroshima, Nagasaki, la deportazione di
12-15 milioni di Tedeschi (dalla Prussia Orientale, dalla Pomerania, dalla
Slesia, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, dalla Romania,
dalla Iugoslavia) in condizioni orribili, la consegna di milioni di Europei al
Moloch sovietico, la più sanguinosa «epurazione» che abbia spazzato tutto un
continente, era davvero così poca cosa che nessun tribunale dovesse giudicare
in proposito? In questo secolo, nessun esercito avrà ucciso tanti bambini
quanti ne ha uccisi la US Air Force in Europa, in Giappone, in Corea, in Vietnam,
in Iraq, in America Centrale e, pertanto, nessuna giurisdizione internazionale
le ha chiesto di rendere conto di questi massacri, che i suoi «boys» sono sempre pronti a scatenare
un’altra volta in qualunque punto del globo, perché questo è il loro «job».
VOLEVANO FORSE LA GUERRA I FRANCESI?
«Sia maledetta la
guerra!» reca scritto il monumento ai caduti del comune di Gentioux nel
dipartimento della Creuse. Il monumento di Saint-Martin-d’Estréaux, nel
dipartimento della Loira, è più prolisso, ma il suo «Bilancio della guerra»
lancia lo stesso grido 37. In
Francia, nelle nostre chiese o sui nostri monumenti pubblici, l’elenco dei
morti della guerra 1914-1918 fa venire il crepacuore. Oggi, nessuno, in fondo,
è più in grado di dire per quale ragione di preciso la gioventù francese
(proprio come, da parte sua, la gioventù tedesca) è stata così falcidiata.
Sugli stessi monumenti
dei nostri comuni figurano a volte, in numero sensibilmente ridotto, i nomi di
giovani Francesi caduti o dispersi durante la campagna 1939-1940: circa 87.000.
A volte vi si leggono anche nomi di vittime civili; gli Anglo-Americani, da
soli, hanno ucciso nei loro bombardamenti circa 67.000 Francesi. A volte ancora
vi si leggono nomi di membri della resistenza, includendo qualche volta, per
far numero, i nomi di membri della resistenza deceduti parecchio tempo dopo la
guerra nel loro letto. Mancano, quasi dappertutto e quasi sempre, i nomi di
Francesi vittime dell’«epurazione» (probabilmente 14.000 e non 30.000 o
addirittura, come si è detto a volte, 105.000) in cui gli ebrei, i comunisti e
i gollisti dell’ultima ora hanno avuto un ruolo fondamentale. Salvo eccezioni,
mancano anche, perché non appartenevano per nascita a questi comuni, i membri
delle truppe coloniali «morti per la Francia».
Per la Francia, le due
guerre mondiali hanno costituito un disastro: la prima per il numero di perdite
in vite umane e la seconda per il suo carattere di guerra civile che si
perpetua ancora oggi.
A guardare questi
elenchi dei caduti della prima guerra mondiale, a completarli con i nomi dei
dispersi, a rammentare gli interi battaglioni di «volti sfigurati», di feriti,
di mutilati, d’invalidi permanenti, a fare il conto delle distruzioni di ogni
sorta, a pensare alle famiglie devastate da queste perdite, ai prigionieri, ai
«fucilati per diserzione», ai suicidi provocati da tante prove, a rammentare
anche i venticinque milioni di morti provocati in America e in Europa a partire
dal 1918 da un’epidemia d’influenza impropriamente chiamata «spagnola» e
importata in Francia, almeno in parte, dai soldati americani 38, non si possono forse capire sia i
pacifisti e i fautori di «Monaco» ante 1939-1945 che i sostenitori del
maresciallo Pétain del giugno 1940? Con quale diritto, oggi, si parla spesso e
volentieri di vigliaccheria sia a proposito degli accordi di Monaco, conclusi
il 29 e 30 settembre 1938, che dell’armistizio firmato a Rethondes il 22 giugno
1940? I Francesi che, a quel tempo, portavano ancora, nella carne o nello
spirito, i segni dell’olocausto del 1914-1918 e dei suoi strascichi immediati –
un vero e proprio olocausto, quello – potevano forse, alla fine degli anni ’30,
concepire come un obbligo morale di doversi lanciare in una nuova carneficina?
E, dopo la firma di un armistizio che, per quanto duro fosse, non aveva niente
d’infamante, che cosa c’era di disonorevole nel ricercare l’intesa con
l’avversario, non per fare la guerra ma per concludere la pace?
VOLEVANO FORSE LA GUERRA I TEDESCHI?
«Hitler [è] nato
a Versailles»: la formula è servita come titolo ad un’opera di Léon Degrelle.
Il diktat di Versailles – perché non ci fu veramente un trattato – fu, nel
1919, tanto rigoroso e così infamante per il vinto che i senatori americani
rifiutarono di riconoscerlo (20 novembre 1919) e che cadde a poco a poco nel
discredito. Esso smembrava la Germania, la sottoponeva ad una spietata
occupazione militare, l’affamava. In particolare, esso obbligava il vinto a
cedere alla Polonia la Posnania, la Slesia ed una parte della Prussia
Occidentale. I quattrocentoquaranta articoli del “Trattato di pace fra le
Potenze alleate ed associate e la Germania” (nonché gli allegati) firmati a
Versailles il 28 giugno 1919 costituiscono, con i trattati connessi, un
monumento d’iniquità che solo il furore di una guerra appena terminata può, al
limite, spiegare. «Si ha un bel rimproverare ai Tedeschi di non aver rispettato
Versailles. Il loro dovere ed il loro senso dell’onore di Tedeschi imponevano
d’aggirarlo prima, e poi di stracciarlo, così come il dovere e il senso
dell’onore dei Francesi imponevano di mantenerlo» 39.
Vent’anni dopo la
schiacciante umiliazione, Hitler vorrà ricuperare una parte dei territori
consegnati alla Polonia, così come la Francia, dopo la disfatta del 1870, aveva
voluto ricuperare l’Alsazia e una parte della Lorena.
Siccome nessuno storico
è in grado – salvo dar prova di leggerezza – di designare il responsabile
principale di un conflitto mondiale, ci si guarderà dal far portare a Hitler
l’esclusiva responsabilità della guerra 1939-1945 con il pretesto che, il 1°
settembre 1939, egli è entrato in guerra contro la Polonia. Invece,
giustificare l’entrata in guerra, due giorni dopo, della Gran Bretagna e della
Francia contro la Germania con la necessità, in nome di un trattato, di
soccorrere la Polonia non ha molto senso, poiché, due settimane dopo, l’URSS
entrava a sua volta in guerra contro la Polonia per occuparne una buona parte,
senza provocare per questo alcuna reazione militare da parte degli Alleati.
I conflitti mondiali
assomigliano a quelle gigantesche calamità naturali che non si possono predire
esattamente nemmeno se, qualche volta, si sentono venire. Non si spiegano se
non dopo, laboriosamente e non senza mostrare una soverchia malafede nelle
accuse reciproche di negligenza, di cecità, di cattiva volontà o
d’irresponsabilità.
Si può tuttavia
costatare che in Germania, alla fine degli anni ’30, il partito della guerra
con l’Occidente era per così dire inesistente; i Tedeschi non concepivano, per
male che andasse, altro che una «spinta verso Est» (Drang nach Osten). In compenso, in Occidente, il partito della
guerra con la Germania era potente. La «consorteria della guerra» volle «la
crociata delle democrazie», e la ottenne.
Tra questi nuovi
crociati figuravano in prima fila, salvo qualche notevole eccezione, gli ebrei
americani ed europei congiuntamente.
WINSTON CHURCHILL E I BRITANNICI
QUALI PADRONI DELLA PROPAGANDA DI GUERRA
Durante la prima guerra
mondiale, i Britannici avevano, con cinismo, sfruttato tutte le risorse della
propaganda a base di racconti d’atrocità interamente fantasiose. Durante la
seconda guerra mondiale essi non hanno derogato a tale consuetudine.
Oggi si è severi verso
la politica di «pacificazione» condotta da Neville Chamberlain nei confronti
dei Tedeschi e si ammira, o si finge di ammirare, Winston Churchill per la sua
determinazione nel proseguire la guerra. Non è detto che la storia, con il
tempo, mantenga questo giudizio. Ciò che si scopre a poco a poco della
personalità e del ruolo di Churchill porta ad interrogarsi sui motivi piuttosto
dubbi di questa determinazione e sui frutti della sua politica. Almeno
Chamberlain aveva previsto che persino una vittoria della Gran Bretagna si
sarebbe tramutata in disastro per la nazione stessa, per il suo impero ed anche
per altri vincitori. Churchill non lo vide o non seppe vederlo. Egli annunciava
il sudore, le lacrime, il sangue, e poi la vittoria. Egli non prevedeva i
futuri giorni amari della vittoria: la rapida scomparsa di quell’impero
britannico al quale egli teneva e la consegna di quasi metà dell’Europa
all’imperialismo comunista.
In una delle sue
conferenze, David Irving, biografo di Churchill, mostra il carattere illusorio
dei successivi motivi che Churchill fu indotto ad invocare, prima per lanciare
i suoi compatrioti nella guerra, poi per mantenerveli.
L’affare, se si può
dire, si svolse in quattro tempi.
In un primo tempo,
Churchill assicurò ai Britannici che era loro dovere venire in aiuto alla
Polonia aggredita da Hitler, ma, due settimane dopo, questo motivo diventava
caduco con l’aggressione della Polonia da parte dell’Unione Sovietica.
In un secondo tempo,
egli spiegò ai suoi connazionali che essi dovevano continuare la guerra per
salvaguardare l’impero britannico: egli rifiutava le reiterate offerte di pace
della Germania; nel maggio 1941, egli faceva internare il messaggero di pace
Rudolf Hess; e, mentre la Germania era incline al mantenimento dell’impero
britannico, egli scelse di concludere un’alleanza con il nemico peggiore che ci
fosse di quest’impero: l’Americano Franklin Roosevelt. Il secondo motivo
diventava così caduco a sua volta.
In un terzo tempo,
Churchill annunciò ai suoi compatrioti che essi dovevano battersi per la
democrazia, anche sotto la sua forma più paradossale: la democrazia socialista
sovietica; bisognava, egli diceva, aprire un secondo fronte in Europa per
alleviare gli sforzi di Stalin. Equivaleva a venire in aiuto ad una dittatura
che aveva pertanto aggredito la Polonia il 17 settembre 1939 e che si
apprestava ad una nuova conquista di questo paese.
Ancora un mese prima
della fine della guerra in Europa (8 maggio 1945) la propaganda inglese girava
così a vuoto, mentre molti soldati britannici e americani scoprivano con
sgomento a che punto l’aviazione anglo-americana aveva devastato la Germania.
È allora che,
all’improvviso, nell’aprile 1945, si produsse un miracolo che permise a
Churchill di trovare questa volta il quarto e buon motivo: la scoperta del
campo di Bergen-Belsen lo indusse a pretendere che, se la Gran Bretagna si era
tanto battuta ed aveva provocato e subito tante distruzioni per quasi sei anni,
non era stato per niente di meno che per la civiltà. Sicuramente, Churchill
aveva già, più d’una volta, propinato ai Britannici le consuete tiritere, dalla
guerra del 1914-1918, sulla Gran Bretagna, questa culla della civiltà messa in
pericolo dalle orde teutoniche («dagli Unni», diceva), ma il meccanismo
oratorio girava a vuoto. Il miracolo fu la scoperta nell’aprile 1945 di questo
campo di concentramento devastato dalle epidemie: una manna per Churchill e per
la propaganda britannica.
I BRITANNICI INAUGURANO A BERGEN-BELSEN
I REALITY SHOW DEI «CRIMINI
NAZISTI»
(aprile 1945)
Situato vicino a
Hannover, Bergen-Belsen era stato prima un campo per feriti di guerra tedeschi.
Nel 1943, i Tedeschi vi stabilirono un campo di detenzione per ebrei europei da
scambiare con civili tedeschi detenuti dagli Alleati. In piena guerra, degli
ebrei furono trasferiti da questo campo verso la Svizzera o persino verso la
Palestina attraverso la Turchia (prova supplementare, sia detto per inciso,
dell’assenza di qualsiasi politica di sterminio fisico degli ebrei).
Fino alla fine del 1944,
le condizioni di vita dei detenuti di Bergen-Belsen furono quasi normali,
quando, con l’arrivo di convogli di deportati venuti dall’Est di fronte
all’assalto sovietico, le epidemie di dissenteria, di colera e di tifo
esantematico provocarono un disastro aggravato dai bombardamenti
anglo-americani che impedivano l’arrivo dei medicinali, del cibo e – fu il
colpo di grazia – dell’acqua. I convogli in arrivo non impiegavano più due o
tre giorni per venire dall’Est, bensì da una a due settimane; a causa dei
bombardamenti e dei mitragliamenti dell’aviazione alleata, essi non potevano
circolare che di notte; il risultato fu che al loro arrivo questi convogli non
contenevano più quasi nient’altro che dei morti, dei moribondi o un gran numero
di uomini e donne stremati e dunque non in grado di affrontare tali epidemie.
Il 1° marzo 1945, il comandante del campo, Josef Kramer, indirizzò al generale Richard
Glücks, responsabile dei campi di concentramento, una lettera che descriveva in
termini testuali questa «catastrofe» e terminava con «Imploro il Suo aiuto per
superare questa situazione» 40.
La Germania, allo stremo
delle forze, non poteva far fronte all’afflusso dei propri profughi dall’Est
che giungevano a milioni. Essa non riusciva più ad approvvigionare l’esercito
d’armi e munizioni e la popolazione di cibo. Infine, non poteva più porre
rimedio alle drammatiche condizioni di vita dei campi dove persino i guardiani
morivano a volte di tifo. Himmler autorizzò dei responsabili della Wehrmacht a prendere contatto con i
Britannici per avvertire questi ultimi del fatto che si stavano avvicinando,
nella loro avanzata, ad un temibile focolaio d’infezione. Ne seguirono dei
negoziati. In un’ampia zona attorno a Bergen-Belsen fu dichiarata la tregua e
Britannici e membri della Wehrmacht
decisero, di comune accordo, di dividersi la sorveglianza del campo.
Ma lo spettacolo che
scoprirono i Britannici e l’odore insopportabile dei cadaveri in
decomposizione, nonché delle baracche o delle tende inondate di materia fecale
finirono per sollevare l’indignazione generale. Si credette o si lasciò credere
che le SS avevano deliberatamente scelto di uccidere o di lasciar morire i
detenuti. E, nonostante i loro sforzi, i Britannici furono incapaci di arginare
la spaventosa mortalità.
Come un nugolo
d’avvoltoi, i giornalisti piombarono sul campo e filmarono o fotografarono
tutti gli orrori possibili. Essi procedettero, per giunta, a dei montaggi. Una
scena famosa, ripresa in Nuit et
Brouillard, mostra un bulldozer che spinge dei cadaveri in una fossa
comune. Molti spettatori di questa scena furono indotti a credere che si
trattasse di «bulldozer tedeschi» 41. Essi
non si accorsero che il bulldozer (al singolare) era guidato da un soldato
britannico che, probabilmente, dopo il conteggio dei cadaveri, li spingeva in
una vasta fossa scavata dopo la liberazione del campo.
Ancora nel 1978, una
pubblicazione ebraica mostrerà questo bulldozer ma non senza decapitarne,
opportunamente, nella fotografia il guidatore in modo da nascondere il suo
berretto di soldato inglese 42. L’ebreo
Sydney Lewis Bernstein, responsabile, a Londra, della sezione cinematografica
del ministero dell’Informazione, fece appello ad Alfred Hitchcock per produrre
un film su queste «atrocità naziste». In fin dei conti, furono resi pubblici
solo degli spezzoni di questo film, probabilmente perché il film nella versione
integrale conteneva delle asserzioni capaci di far dubitare della sua
autenticità 43.
Ma nell’insieme, il
«colpo di Bergen-Belsen» costituì una straordinaria riuscita per la propaganda
degli Alleati. È a partire da questa prodezza mediatica che tutto il mondo
imparò a non vedere ciò che aveva sotto gli occhi: gli si presentarono sia dei morti, sia dei moribondi ma il commento lo portò a credere di avere sotto gli
occhi dei morti ammazzati, dei morti assassinati, degli sterminati, ovvero dei cadaveri
ambulanti condannati a morire vittime d’uccisioni,
d’assassini, di stermini. Così, come si è visto in precedenza, è a partire da un
campo che non possedeva né forni crematori, né – secondo il parere stesso degli
storici conformisti – la minima camera a gas omicida, che si edificò il mito
generale della presenza ad Auschwitz ed altrove di «camere a gas» accoppiate
con dei forni crematori.
In questo campo, tra le
vittime più celebri delle epidemie si trovarono Anna Frank e sua sorella Margot
che, per quasi quarant’anni dopo la guerra, si persisterà generalmente a presentare
come gassate ad Auschwitz (campo da cui esse effettivamente provenivano) o come
morte ammazzate a Bergen-Belsen; oggi, si è d’accordo nel riconoscere che esse
sono morte di tifo a Bergen-Belsen nel febbraio-marzo 1945.
Il «colpo di
Bergen-Belsen» fu ben presto imitato dagli Americani che, facendo appello a
Hollywood, girarono una serie di film sulla liberazione dei campi tedeschi;
essi procedettero ad una selezione di loro riprese cinematografiche (6.000
piedi di pellicola su un totale di 80.000, cioè 1.800 metri soltanto su quasi
25.000) che, il 29 novembre 1945, fu proiettata al processo di Norimberga dove
tutti, compresa la maggior parte degli imputati, ne rimasero scossi. Alcuni
imputati fiutarono l’imbroglio ma era troppo tardi: il bulldozer della grande
menzogna era stato messo in moto. Esso è in funzione ancora oggi. Gli
spettatori di tutti questi film d’orrore sui «campi nazisti» furono, alla
lunga, condizionati dalla scelta delle immagini e dal commento. Un pezzo di
muro, un mucchio di scarpe, un camino: non ebbero bisogno d’altro per credere
che fosse stato mostrato loro un mattatoio chimico.
Cinquantadue anni dopo
la liberazione del campo di Bergen-Belsen, Maurice Druon, segretario a vita
dell’Académie française, verrà a deporre al processo di Maurice Papon. Ecco uno
stralcio di questa deposizione in cui sono evocate le camere a gas omicide di
Bergen-Belsen (di cui tutti gli storici riconoscono oggi che questo campo era
privo), il famoso bulldozer e i «capelli tosati sui morti per farne un qualche
surrogato»:
Quando oggi si parla dei
campi si hanno negli occhi, e i giurati presenti hanno negli occhi quelle
immagini atroci che i film e gli schermi ci presentano e ci ripresentano; e si
ha ben ragione di farlo, e si dovrebbe diffonderli di nuovo in tutte le ultime
classi, ogni anno. Ma quelle immagini, delle camere a gas, dei mucchi di
capelli tosati sui morti per farne qualche surrogato, di quei bambini che
giocavano tra i cadaveri, e di quei cadaveri così numerosi che si era costretti
a spingerli nelle fosse con il bulldozer, e di quelle coorti scheletriche,
titubanti e stralunate, in pigiama a righe, con la morte negli occhi, quelle
immagini, e ne fornisco qui la testimonianza, io fui, nella mia modesta qualità
di ufficiale d’informazione, uno dei venti ufficiali alleati che «ne presero
visione» per primi, quando pervenne il materiale cinematografico integrale,
come si dice, della liberazione da parte degli Inglesi del campo di
Bergen-Belsen. Ma era la primavera del 1945. Fino a quel momento non si sapeva.
– Non bisogna giudicare con i nostri occhi addestrati [sic] di oggi, ma con i nostri occhi accecati di
ieri 44.
M. Druon, in realtà,
aveva ieri degli «occhi addestrati» e oggi ha degli «occhi accecati». Più di
cinquant’anni di propaganda l’hanno reso definitivamente cieco. Ma già durante
la guerra, M. Druon e suo zio Joseph Kessel, entrambi ebrei, non erano forse
accecati dall’odio verso il soldato tedesco quando componevano l’atroce Chant des Partisans («Uccisori con le
pallottole o con il coltello, uccidete in fretta!»)?
AMERICANI E SOVIETICI RINCARANO
LA DOSE RISPETTO AI BRITANNICI
Almeno, nel 1951,
un’ebrea come Hannah Arendt aveva l’onestà di scrivere: «Non è di poca
importanza sapere che tutte le fotografie di campi di concentramento sono
ingannevoli (misleading) nella misura
in cui esse mostrano i campi nel loro ultimo periodo, nel momento in cui gli
Alleati vi penetrarono […]. Le condizioni che regnavano nei campi risultavano dai
fatti di guerra degli ultimi mesi: Himmler aveva ordinato l’evacuazione di
tutti i campi di sterminio dell’Est; di conseguenza, i campi tedeschi furono
notevolmente sovraffollati e non [si] era più in grado di garantire l’approvvigionamento in
Germania» 45. Ricordiamo qui, ancora una volta, che
l’espressione «campi di sterminio» (extermination camps) è una creazione
della propaganda di guerra alleata.
Eisenhower seguì le orme
di Churchill e procedette, su scala americana, ad una tale propaganda a base di
racconti d’atrocità che tutto divenne permesso sia nei riguardi del vinto che
nei confronti della semplice verità dei fatti. Nei pretesi reportage sui campi tedeschi si aggiunsero, come ho detto, agli
orrori veri degli orrori più veri del naturale. Si eliminarono le fotografie o
gli spezzoni di film che mostravano degli internati dall’aspetto fiorente come
quello di Marcel Paul, o ancora degli internati relativamente in buona salute
nonostante la carestia o le epidemie, o ancora, come a Dachau, delle madri
ebree ungheresi in buona salute che davano il biberon a dei bei pupi. Non si
ricordarono che i derelitti, gl’invalidi, i relitti umani che erano, in realtà,
vittime tanto dei Tedeschi quanto degli Alleati che, con i loro bombardamenti a
tappeto su tutta la Germania e i loro mitragliamenti sistematici dei civili,
anche dei contadini nei loro campi, avevano creato una situazione apocalittica
proprio nel cuore dell’Europa.
La verità obbliga a
dire che né Churchill, né Eisenhower, né Truman, né de Gaulle spinsero comunque
l’impudenza fino ad avallare le storie di mattatoi chimici; essi lasciarono
questa cura alle loro fucine di propaganda e ai giudici dei loro tribunali militari.
Furono inflitte terribili torture ai Tedeschi colpevoli, agli occhi degli
Alleati, di tutti questi «crimini»; furono esercitate delle rappresaglie sui
prigionieri tedeschi e sui civili. Fino al 1951 si fucilarono e
s’impiccarono Tedeschi e Tedesche (ancora negli anni ’80, i Sovietici
fucileranno dei «criminali di guerra» tedeschi o alleati dei Tedeschi). I
militari britannici ed americani, da principio sconvolti dallo spettacolo delle
città tedesche ridotte in cenere e allo stesso tempo dei loro abitanti
trasformati in trogloditi, poterono ritornare a casa con la coscienza
tranquilla. Churchill e Eisenhower se ne facevano garanti: le truppe alleate
avevano sgominato il Male; esse incarnavano il Bene; si sarebbe proceduto alla
«rieducazione» del vinto bruciando i suoi cattivi libri a milioni. A conti
fatti, la Grande Carneficina era stata condotta a buon fine e per il buon
motivo.
È questo il bluff che il
processo-spettacolo di Norimberga consacrò.
UN BLUFF FINALMENTE DENUNCIATO NEL 1995
Ci vollero non meno di
cinquant’anni perché una storica, Annette Wieviorka, ed un cineasta, William
Karel, rivelassero al grande pubblico, in un documentario intitolato Contre l’oubli, le messe in scena e le
creazioni americane e sovietiche del 1945 in merito alla liberazione dei campi
dell’Ovest e dell’Est.
A. Wieviorka, ebrea
francese, e W. Karel, Israeliano residente in Francia dal 1985, hanno
manifestamente subito l’influenza della scuola revisionista francese. Assai
ostili ai revisionisti, essi hanno nondimeno ammesso che era giunto il momento
di denunciare alcune invenzioni troppo vistose della propaganda
sterminazionista. Al riguardo si farà riferimento sia ad un articolo di
Philippe Cusin 46, sia, soprattutto, in
occasione della nuova diffusione del documentario su Antenne 2, a un articolo di Béatrice Bocard il cui titolo, da solo,
la dice lunga: «La Shoah, dalla realtà agli show. Di fronte ai racconti dei deportati,
l’indecente messa in scena dei loro liberatori» 47.
La giornalista scrive:
Esagerando appena, si
potrebbe dire che la liberazione dei campi di concentramento ha inaugurato i reality show […]. Le primizie della società dello spettacolo
che le catene televisive come la CNN avrebbero banalizzato cinquant’anni dopo
c’erano già, con il soprappiù dell’indecenza, del voyeurismo e il ricorso alla
messa in scena […]. Davanti alle telecamere, si fa ripetere ai
meno malandati dei sopravvissuti il loro testo: «Io sono stato deportato perché
ero ebreo», dice uno. Una volta, due volte… […] Per non essere da meno dopo lo «show»
americano, i Sovietici, che non avevano fatto niente al momento della
liberazione di Auschwitz, filmano una «falsa liberazione» alcune settimane
dopo, con delle comparse polacche che acclamano i soldati a gran voce… «William
Karel è il primo a sfaldare queste false immagini che ci sono sempre state
mostrate, anche assai di recente, come autentiche», dice Annette Wieviorka.
Come si è potuto credervi? «Non c’è l’abitudine di mettere in dubbio le
immagini come lo si fa per gli scritti», spiega la storica. «L’esempio del
carnaio di Timisoara non è tanto remoto».
Va da sé che, in
quest’articolo di B. Bocard, le manipolazioni erano mostrate come oltraggiose…
per i deportati. Quanto ai Tedeschi, civili e militari, alcuni di loro avevano
denunciato sin dal 1945 questo tipo di montaggi; ma, piuttosto che credere
loro, li si accusò di nazismo o d’antisemitismo.
EMINENTE RESPONSABILITÀ DELLE ORGANIZZAZIONI
EBRAICHE IN QUESTA PROPAGANDA
Dalle sue origini, 1941,
ai nostri giorni, la propaganda sviluppatasi attorno al «genocidio» o alle
«camere a gas» è essenzialmente dovuta alle organizzazioni ebraiche. Perciò si
è a poco a poco formata nel grande pubblico la convinzione che un’impresa di
sterminio fisico condotta dai Tedeschi mirasse, prima di tutto, agli ebrei e
che le «camere a gas» fossero in qualche modo riservate agli ebrei (compresi
gli ebrei del Sonderkommando che
conducevano i loro correligionari al mattatoio). Oggi, gl’innumerevoli «musei
dell’Olocausto» costituiscono un monopolio ebraico ed è una parola ebraica, la
parola Shoah (catastrofe), che
designa sempre più spesso questo preteso genocidio. Qualsiasi possa essere
stata la loro partecipazione alla costruzione e al successo del mito, gli
Alleati non hanno avuto in questa circostanza che un ruolo secondario e sempre sotto le pressioni delle
organizzazioni ebraiche. Tuttavia, il caso dei Sovietici potrebbe essere stato
diverso: la loro fabbricazione di un «Auschwitz» dove non viene messo l’accento
sulla sorte degli ebrei potrebbe avere trovato origine nella necessità di una
propaganda, al di là della Cortina di ferro, in direzione dei progressisti
occidentali.
E non è perché oggi
delle voci ebree si levano per chiedere che si parli meno delle «camere a gas»,
che la propaganda dell’«Olocausto» o della Shoah
smorza il tono presso i responsabili della comunità israelitica. Più
semplicemente, agli occhi degli storici ebrei, queste incredibili «camere a
gas» sono diventate ingombranti per la propagazione della fede nella Shoah.
Una personalità politica
francese ha detto delle camere a gas naziste che erano un dettaglio della
seconda guerra mondiale. Ora, nelle loro rispettive opere su questa guerra, Eisenhower,
Churchill e de Gaulle hanno apparentemente ritenuto che questi mattatoi chimici
fossero addirittura meno di un dettaglio poiché non ne hanno fatto parola. Si
nota la stessa discrezione nello storico René Rémond, importante membro del Comité d’histoire de la Deuxième Guerre
mondiale prima, poi dell’Institut
d’histoire du temps présent: in due sue opere dove ci si sarebbe aspettato
di veder figurare le parole «camera a gas», non si trova niente di tale. Lo
storico americano Daniel Jonah Goldhagen parla di queste camere come di un
«epifenomeno». Nella versione francese della sentenza di Norimberga, vi sono
dedicate solo 520 parole, estremamente
vaghe, su circa 84.000, il che costituisce lo 0,62% del testo di questa
sentenza.
Per un revisionista, le camere
a gas sono meno di un dettaglio, perché molto semplicemente non sono esistite;
ma il mito delle camere a gas, esso, è molto più di un dettaglio: è la pietra
angolare d’un immenso edificio di credenze di ogni sorta che la legge ci vieta
di contestare.
«Camere a gas o no, che
importanza ha?» Si sente a volte questa domanda, impregnata di scetticismo.
Essa irrita lo storico P. Vidal-Naquet per il quale rinunciare alle camere a
gas equivarrebbe a «capitolare in aperta campagna» 48.
Non si può far altro che dargli ragione. Infatti, a seconda che le camere a gas
siano esistite o no, ci verranno presentati i Tedeschi come dei criminali
matricolati oppure gli ebrei come dei bugiardi matricolati (o imbonitori). Nel
primo caso, i Tedeschi hanno, per tre o quattro anni, ucciso con mezzi
industriali e in proporzioni industriali delle sventurate vittime inermi,
mentre, nel secondo caso, gli ebrei, da più di mezzo secolo, propalano una
menzogna di dimensioni storiche.
Nel 1976 l’universitario
americano Arthur Robert Butz pubblicava la sua opera The Hoax of the Twentieth Century; da parte mia, io pubblicavo su
Le Monde del 29 dicembre 1978 e del 16 gennaio 1979 due testi sulla «voce su
Auschwitz» e, proprio all’inizio dello stesso anno 1979, Wilhelm Stäglich
pubblicava Der Auschwitz Mythos.
Facendosi portavoce di molte inquietudini ebraiche dinanzi al fiorire degli
scritti revisionisti, il sionista W. D. Rubinstein, professore all’università
Deakin di Melbourne (Australia), scriveva allora:
«Se si dimostrasse che
l’Olocausto è una mistificazione, scomparirebbe l’arma n. 1 dell’arsenale della
propaganda d’Israele» 49.
Ripetendosi qualche
tempo dopo, dichiarava:
«[Sta] di fatto che, se si può
dimostrare che l’Olocausto è un «mito sionista», crolla la più forte di tutte
le armi dell’arsenale della propaganda d’Israele» 50.
Otto anni dopo, come a
fargli eco, un avvocato della LICRA dichiarava:
«Se le camere a gas sono
esistite, la barbarie nazista non eguaglia nessun’altra. Se non sono esistite,
gli ebrei hanno mentito e l’antisemitismo si vedrebbe giustificato. Ecco la
posta in gioco del dibattito» 51.
Secondo la formula di E.
Zündel, «l’«Olocausto» è la spada e lo scudo d’Israele».
La posta in gioco non è
dunque semplicemente storica, bensì politica. Questa posta in gioco politica è
paradossale: il mito dell’«Olocausto» serve a condannare in primo luogo il
nazionalsocialismo tedesco, poi ogni forma di nazionalismo o d’idea nazionale
salvo il nazionalismo israeliano e l’idea sionista che questo mito, al
contrario, rafforza.
La posta in gioco è anche
finanziaria quando si pensa che, almeno a partire dagli accordi sulle
«riparazioni» firmati nella città di Lussemburgo nel 1952, i contribuenti
tedeschi hanno versato delle somme «astronomiche» (l’aggettivo qualificativo è
di Nahum Goldmann) agli ebrei dello Stato d’Israele o della Diaspora nel loro
insieme e che continueranno, a causa della Shoah,
a pagare per i crimini che si imputano loro almeno fino all’anno 2030. Lo «Shoah-Business», denunciato persino da
un P. Vidal-Naquet, è indissociabile dalla Shoah.
Oggi, il bluff della Shoah autorizza un racket su scala
mondiale. Per cominciare, una serie crescente di paesi ricchi o poveri, tra cui
la Francia, si vedono reclamare, da parte del Congresso mondiale ebraico
presieduto dal miliardario Edgar Bronfman e da parte di ricchissime
organizzazioni ebraiche americane, montagne d’oro e di denaro a titolo di nuove
«restituzioni» o di nuove «riparazioni». I paesi d’Europa, a cominciare dalla
Svizzera, non sono i soli presi di mira. Per il momento, una mafia, saldamente
insediata, opera in quattro direzioni principali (ce ne saranno altre, non c’è
da dubitare): «l’oro nazista», gli averi degli ebrei, le collezioni d’arte
ebree e le polizze d’assicurazione sottoscritte da ebrei. I bersagli principali
sono i governi, le banche, i musei, le sale d’asta pubblica e le compagnie
d’assicurazioni. Negli Stati Uniti, sotto le pressioni delle organizzazioni
ebraiche, lo Stato del New Jersey ha già votato delle misure di boicottaggio
contro le istituzioni bancarie svizzere. Non è che un inizio. La sola vera
argomentazione invocata dai maestri cantori è racchiusa in una parola: Shoah. Non un governo, non una banca,
non una società d’assicurazioni osa ribattere a sua difesa che si tratta qui di
un mito e che non è il caso di pagare per un crimine che non è stato commesso.
Gli Svizzeri, su pressioni delle organizzazione ebraiche, in un primo tempo
hanno avuto l’ingenuità di votare una legge che vietava qualsiasi rimessa in
discussione della Shoah; ma non hanno
fatto in tempo a pubblicare questa legge che E. Bronfman ha presentato loro il
conto da pagare. Gli Svizzeri hanno allora offerto delle somme considerevoli.
Fatica sprecata. E. Bronfman, «in collera», ha fatto sapere che gli ci voleva
infinitamente di più. «La mia esperienza degli Svizzeri – ha dichiarato – è che, a meno che non teniate loro i piedi
sul fuoco, non vi prendono sul serio» 52.
Quanto al danno morale
causato alla Germania in particolare e ai non ebrei in generale dalla
propagazione della religione dell’«Olocausto», esso è incalcolabile. Le
organizzazioni ebraiche non cessano di reiterare le loro accuse contro una
Germania colpevole d’un «genocidio» degli ebrei e contro Churchill, Roosevelt,
de Gaulle, Stalin, papa Pio XII, il Comitato internazionale della Croce Rossa,
i paesi neutrali ed altri paesi ancora, colpevoli, pare, di aver lasciato che
la Germania commettesse questo «genocidio» e debitori, di conseguenza,
anch’essi, di «riparazioni» finanziarie.
LE ORGANIZZAZIONI EBRAICHE IMPONGONO
IL CREDO DELL’«OLOCAUSTO»
La mia opera, come si
vedrà, tocca poco la «questione ebraica».
Se, per tanti lustri, ho
perseguito con accanimento l’indagine storica senza preoccuparmi troppo della
«questione ebraica» in quanto tale, è che, nella mia mente, quest’ultima non
aveva che un’importanza secondaria. Essa rischiava di distogliermi
dall’essenziale: io cercavo, in primo luogo e prima di tutto, di determinare le
rispettive parti della verità e del mito nella storia detta dell’«Olocausto» o
della Shoah; m’importava dunque molto
di più di stabilire la materialità dei fatti che di ricercare le
responsabilità.
Pertanto, mio malgrado,
due fatti mi costringevano ad uscire dalla mia riserva: l’atteggiamento di
numerosi ebrei nei confronti dei miei lavori e la loro ingiunzione lancinante
di dovermi pronunciare su ciò che appassiona tanti di loro: la «questione
ebraica».
Quando, all’inizio degli
anni ’60, abbordai ciò che Olga Wormser-Migot chiamava, nella sua tesi del
1968, «il problema delle camere a gas», io seppi di primo acchito quali
conseguenze avrebbe potuto comportare una simile impresa. L’esempio di P.
Rassinier mi avvertiva che potevo temere gravi ripercussioni. Decisi nondimeno
di andare avanti, di attenermi ad una ricerca di carattere puramente storico e
di pubblicarne il risultato. Sceglievo anche di lasciare all’eventuale
avversario la responsabilità di uscire dal campo della controversia
universitaria per impiegare i mezzi della coercizione e forse persino della
violenza fisica.
È precisamente ciò che
avvenne. Valendomi di un paragone, potrei dire che in qualche modo la fragile
porta d’ufficio dietro alla quale redigevo i miei scritti revisionisti cedette,
un giorno, sotto la spinta di una turba vociante di protestatari. Mi fu allora
giocoforza constatarlo, la totalità o la quasi totalità degli agitatori erano
figli e figlie d’Israele. «Gli ebrei» avevano appena fatto irruzione nella mia
vita. Io li scoprivo all’improvviso non più quali li avevo conosciuti fino a
quel momento, cioè come individui da distinguere gli uni dagli altri, ma come
gli elementi, impossibili da staccare gli uni dagli altri, di un gruppo
particolarmente saldato nell’odio e, per usare la loro parola, nella «collera».
Frenetici, con la bava alla bocca, con tono di gemito e al tempo stesso di
minaccia, essi venivano a strombazzarmi all’orecchio che i miei lavori li
irritavano, che le mie conclusioni erano false e che dovevo tassativamente fare
atto di vassallaggio alla loro interpretazione della storia della seconda
guerra mondiale. Quest’interpretazione kasher
pone «gli ebrei» al centro di questa guerra come vittime, non somiglianti a
nessun’altra, di un conflitto che ha però causato probabilmente quasi quaranta
milioni di morti. Per loro, il loro massacro era unico nella storia del mondo. Mi
si avvertiva che, a meno di sottomettermi, avrei visto la mia carriera
rovinata. Sarei stato trascinato dinanzi ai tribunali. Poi, per via mediatica,
il Gran Sinedrio, formato dai sacerdoti, dai notabili e dai dottori della legge
ebraica, lanciò contro la mia persona una virulenta campagna di richiami
all’odio e alla violenza. Non mi dilungherò sul susseguirsi, interminabile,
degli oltraggi, delle aggressioni fisiche e dei processi.
I responsabili di queste
organizzazioni mi trattano volentieri da «nazista», che io non sono. Paragone
per paragone, io sarei piuttosto, rispetto a loro, un «Palestinese», trattato
come tale e portato a credere che nei riguardi di coloro che essi non
gradiscono gli ebrei si comportano nella Diaspora come li si vede comportarsi
in Palestina. I miei scritti sono, se si vuole, le pietre della mia Intifada.
Parlando francamente, io non scopro nessuna differenza essenziale tra il
comportamento dei responsabili sionisti di Tel-Aviv o di Gerusalemme e quello
dei responsabili ebrei di Parigi o di New York: stessa durezza, stesso spirito
di conquista e di dominio, stessi privilegi, su un fondo incessante di ricatto,
di pressioni accompagnate da lagnanze e gemiti. Questo nello spazio. È forse
altrimenti nel tempo? Il popolo ebraico è stato forse così sventurato nei
secoli passati da essere pronto a dirlo? Ha forse sofferto di guerre e guerre
civili tanto quanto le altre comunità umane? Ha forse conosciuto altrettante
ristrettezze e miseria? Non ha davvero nessuna responsabilità nelle reazioni
d’ostilità di cui si lamenta spesso e volentieri? Su questo punto, Bernard
Lazare scrive:
Se quest’ostilità,
addirittura questa ripugnanza, si fossero esercitate nei riguardi degli Ebrei
solo in un periodo e solo in un paese, sarebbe facile individuare le cause
ristrette di queste collere; ma questa razza è stata, al contrario, fatta segno
all’odio da parte di tutti i popoli in mezzo ai quali si è stabilita. Bisogna
dunque, poiché i nemici degli Ebrei appartenevano alle razze più diverse,
vivevano in contrade molto lontane le une dalle altre, erano retti da leggi
diverse, governati da principi opposti, non avevano né gli stessi usi, né gli
stessi costumi, erano animati da spiriti dissimili che non permettevano loro di
giudicare ugualmente tutte le cose, bisogna dunque che le cause generali
dell’antisemitismo siano sempre risiedute in Israele stesso e non presso coloro
che le combatterono.
Questo non per affermare che
i persecutori degli Israeliti ebbero sempre il diritto dalla loro parte, né che
essi non si lasciarono andare a tutti gli eccessi che comportano gli odi vivi,
ma per porre come postulato che gli Ebrei furono causa – in parte almeno – dei
propri mali 53.
B. Lazare, che non è per
niente ostile ai suoi correligionari – ben al contrario –, ha la schiettezza di
ricordare a più riprese quanto gli ebrei abbiano saputo, in tutto il corso
della loro storia, sin dall’Antichità, guadagnarsi dei privilegi: «[Molti] tra
la povera gente erano attirati dai privilegi concessi agli Ebrei» 54.
Mi si permetterà qui una
confidenza.
Da vecchio latinista e al
tempo stesso da imputato perseguito dinanzi ai tribunali da parte di
organizzazioni ebraiche, da professore universitario cui si è impedito di
tenere le proprie lezioni a causa di manifestazioni ebraiche, e, infine, da
autore cui è stato vietato di pubblicare a causa di decisioni del rabbinato
maggiore ratificate dalla repubblica francese, mi capita di confrontare le mie
esperienze con quelle d’illustri predecessori. È così che penso
all’aristocratico romano Lucio Flacco. Nel 59 prima della nostra era, Cicerone
ebbe a difenderlo in particolare contro i suoi accusatori ebrei; la descrizione
che fa l’illustre oratore dell’influenza, della potenza e dei procedimenti
degli ebrei di Roma nel pretorio mi fa pensare che, se egli ritornasse sulla
terra, nel XX secolo, per difendervi un revisionista, non avrebbe per così dire
bisogno di cambiare neanche una parola su questo punto nella sua arringa del Pro Flacco.
Avendo dovuto insegnare
alla Sorbona, penso anche al mio predecessore Henri Labroue, autore di un’opera
su Voltaire antijuif. Alla fine del
1942, in piena occupazione tedesca, in un periodo in cui ci vogliono far
credere che gli ebrei e i loro difensori si dimostrassero quanto più possibile
discreti, egli dovette rinunciare a tenere le sue lezioni sulla storia del
giudaismo. Citiamo André Kaspi:
È stata creata alla Sorbona
una cattedra di storia del giudaismo per la ripresa delle lezioni dell’anno
accademico 1942 e affidata a Henri Labroue. Le prime lezioni hanno dato luogo a
manifestazioni d’ostilità e a incidenti che hanno comportato la soppressione
dei corsi 55.
Ma, oggi, immancabilmente
si ritroverebbero dinanzi ai tribunali, su querela di associazioni ebraiche,
decine di grandi nomi della letteratura mondiale, tra cui Shakespeare,
Voltaire, Hugo nonché Zola (il difensore di Dreyfus ha scritto anche L’Argent). Tra i grandi nomi della
politica, persino un Jaurès siederebbe sul banco dell’infamia.
Tali considerazioni
potrebbero valermi l’epiteto d’antisemita o d’antiebreo. Io respingo queste
qualifiche che considero facili insulti. Io non voglio nessun male a nessun
ebreo. Trovo, invece, detestabile il comportamento della maggior parte delle
associazioni, organizzazioni e gruppi di pressione che pretendono di rappresentare
gli interessi ebraici o la «memoria ebraica».
I responsabili di queste
associazioni, organizzazioni o gruppi fanno manifestamente molta fatica a
capire che si possa agire per semplice onestà intellettuale. Se, dal canto mio,
ho dedicato buona parte della mia vita al revisionismo, prima nel campo degli
studi letterari, poi in quello della ricerca storica, non è affatto in seguito
ad odiosi calcoli o per servire un complotto antiebraico, ma per un moto così
naturale come quello che fa sì che l’uccello canti, che spunti la foglia e che,
nelle tenebre, l’uomo aspiri alla luce.
RESISTENZA NATURALE DELLA SCIENZA STORICA A QUESTO CREDO
Come certi altri
revisionisti, avrei potuto operare la mia sottomissione, fare atto di
pentimento, ritrattare; altra scappatoia: mi sarei potuto accontentare di
ordire dei sapienti ed arzigogolati stratagemmi. Non soltanto io decisi, a
cominciare dagli anni ’70, di resistere a viso aperto e alla luce del sole, ma
mi ripromisi di non prendere parte al gioco dell’avversario. Io presi la
risoluzione di non cambiare niente nel mio comportamento e di lasciare che gli
eccitati si eccitassero ogni giorno di più. Tra gli ebrei, non avrei ascoltato
che quelli, particolarmente coraggiosi, che osavano prendere le mie difese
almeno nello spazio di una stagione 56.
Le organizzazioni ebraiche
nell’insieme trattano come antisemiti coloro che non adottano la loro
concezione della storia della seconda guerra mondiale. Le si può capire, poiché
arrivare a dire, come faccio io qui ora, che esse rientrano, per me, nel novero
dei principali responsabili della propagazione di un mito gigantesco ha le
apparenze di un’opinione ispirata dall’antisemitismo. Ma, in realtà, io non
faccio che trarre le conclusioni ovvie di un’indagine storica che, con ogni probabilità,
deve essere tra le più serie, poiché nessun tribunale, nonostante le febbrili
ricerche dell’accusa, ha potuto individuarvi tracce di leggerezza, di
negligenza, di deliberata ignoranza o di menzogna.
Peraltro, a dei gruppi di
persone che non hanno manifestato il minimo rispetto per le mie ricerche, le
mie pubblicazioni, la mia vita personale, familiare o professionale, non vedo
perché, dal canto mio, dovrei dimostrare rispetto. Io non attacco né critico
questi gruppi per le loro convinzioni religiose o il loro attaccamento allo
Stato d’Israele. Tutti i gruppi umani si beano di fantasmagorie. Di
conseguenza, ciascuno di loro è libero di offrirsi della sua storia una
rappresentazione più o meno reale, più o meno immaginaria. Ma questa
rappresentazione, non bisogna imporla agli altri. Ora, le organizzazioni
ebraiche c’impongono la loro, cosa che, in sé, è inaccettabile e lo è ancora di
più quando questa rappresentazione è manifestamente erronea. Ed io non conosco
in Francia nessun gruppo che, di un articolo di fede della sua religione
(quella della Shoah) sia arrivato a
fare un articolo della legge repubblicana; che benefici del privilegio
esorbitante di possedere delle milizie armate con l’assenso del ministero
dell’Interno; e che, infine, possa decretare che gli universitari che non gli
sono graditi non avranno più diritto d’insegnare né in Francia, né all’estero
(vedi, in particolare, il caso Bernard Notin).
PER UN REVISIONISMO SENZA COMPLESSI
I revisionisti non conoscono in effetti
né maestro né discepolo. Essi formano una truppa eteroclita. Ripugna loro
organizzarsi, il che presenta tanti inconvenienti quanti vantaggi. Il loro
individualismo li rende inadatti all’azione concertata; in compenso, i servizi
di polizia si rivelano incapaci di penetrare e di sorvegliare un insieme così
disparato; essi non possono risalire a nessun canale, proprio perché non esiste
nessuna rete revisionista. Questi individui si sentono liberi d’improvvisare,
ognuno secondo le proprie attitudini o i propri gusti, un’attività revisionista
che assumerà le forme più diverse. La qualità dei lavori intrapresi ne risente
e bisogna riconoscere che il risultato è disuguale. Da questo punto di vista,
si può dire che resta ancora molto da fare. Il semplice dilettante sta gomito a
gomito con l’erudito, e l’uomo d’azione con il ricercatore nei suoi archivi. Io
qui non farò nomi per timore di catalogare ciascuno di questi individui 57.
Sulla maniera di condurre
la battaglia revisionista, va da sé che i revisionisti si dividono tra fautori
ed avversari di una sorta di realismo politico. La maggior parte ritiene che,
di fronte alla potenza del tabù, è meglio procedere per vie traverse e non
scontrarsi frontalmente con i sostenitori dell’ortodossia. Per questi
revisionisti, è maldestro ed imprudente buttare lì, per esempio, che
l’«Olocausto» è un mito; è meglio, secondo loro, insinuare che l’«Olocausto» è
esistito per davvero ma non nelle proporzioni generalmente ammesse. Presi dalla
strategia o dalle tattiche, questi revisionisti cercheranno di aver riguardo
per le suscettibilità ebraiche e suggeriranno, a torto, che la parte
leggendaria dell’«Olocausto» è soprattutto imputabile ai comunisti o agli
Alleati ma non agli ebrei, o comunque assai poco. Non si vedono forse degli
apprendisti revisionisti praticare il fallace amalgama che consiste nel
presentare gli ebrei come vittime, allo stesso titolo degli altri, di una sorta
di credo universale erroneo? Gli ebrei si sarebbero visti obbligati, in qualche
modo da una forza immanente, a credere al genocidio ed alle camere a gas,
mentre, probabilmente, la stessa forza li spingerebbe a reclamare ancora più
denaro in riparazione alle sofferenze fittizie 58.
A un ebreo errante appena passato al campo revisionista, si farà festa come al
genio più puro del revisionismo. Se riprenderà a suo conto, ed in modo
maldestro, le scoperte dei suoi predecessori non ebrei su Auschwitz, si
saluterà in questo nuovo venuto un luminare del pensiero scientifico.
Io ammetto certe forme di
questo realismo politico, ma a condizione che non sia accompagnato da
arroganza. Non c’è nessuna superiorità, né intellettuale né morale, nel pensare
che il fine giustifica i mezzi e che a volte bisogna proprio prendere a
prestito dall’avversario le armi della dissimulazione e della menzogna. Ma,
personalmente, la mia preferenza va ad un revisionismo senza complessi e senza
troppi compromessi. Si dichiara il colore. Si cammina diritto verso la meta.
Soli, se necessario. Non si ha riguardo per l’avversario. D’altronde, una
lunghissima esperienza della battaglia revisionista mi fa pensare che la
migliore strategia, la migliore tattica possano consistere in una successione
di attacchi frontali; l’avversario non se li aspettava; egli immaginava che
nessuno avrebbe avuto l’audacia di sfidarlo così; egli scopre di non fare più
paura; ne è disorientato.
UN CONFLITTO SENZA FINE
I revisionisti hanno
proposto cento volte ai loro avversari un dibattito pubblico sul genocidio, le
camere a gas e i sei milioni. Le organizzazioni ebraiche si sono sempre
sottratte a questa proposta. C’è ora la prova che esse non l’accetteranno.
Almeno la Chiesa cattolica ammette oggi una forma di dialogo con gli atei, ma
lei, la Sinagoga, non dimenticherà l’offesa fattale 59 e non si risolverà mai a correre il
rischio di un tale dialogo con i revisionisti. Peraltro, sono in gioco troppi
interessi politici, finanziari e morali perché, da parte loro, i responsabili
dello Stato d’Israele o della Diaspora accettino di avviare un simile dibattito
sulla versione kasher della storia
della seconda guerra mondiale.
Continuerà dunque la prova
di forza. Io non ne vedo una fine. Il conflitto al quale noi assistiamo tra
«sterminazionismo» e «revisionismo», cioè, da un lato, una storia ufficiale,
immutabile, sacra e, dall’altro, una storia critica, scientifica, profana,
s’iscrive nella battaglia senza fine che si danno nelle società umane, da
millenni, la fede e la ragione o le credenze e la scienza. La fede
nell’«Olocausto» o Shoah fa parte
integrante di una religione, la religione ebraica, di cui, a guardare da
vicino, le fantasmagorie dell’«Olocausto» non sono che un’emanazione. Non si è
mai vista una religione crollare sotto i colpi della ragione. Non sarà domani
che scomparirà la religione ebraica con una delle sue componenti più vivaci.
Secondo le interpretazioni in atto, questa religione è vecchia di 1.500 anni o
di tremila, se non di quattromila anni. Non si vede perché gli uomini dell’anno
2000 dovrebbero beneficiare del privilegio d’assistere in diretta al naufragare
di una religione che risale a tempi tanto antichi.
Si sente a volte dire che
il mito dell’«Olocausto» o della Shoah
potrebbe un giorno svanire come è crollato non molto tempo fa il comunismo
stalinista o come crolleranno un giorno prossimo futuro il mito sionista e lo
Stato d’Israele. Equivale a paragonare ciò che non è paragonabile. Comunismo e
sionismo poggiano su basi fragili; tutt’e due presuppongono nell’uomo delle
alte aspirazioni che sono largamente illusorie: il disinteresse generalizzato,
la divisione alla pari tra tutti, il senso di sacrificio, il lavoro a profitto
di tutti; i loro emblemi sono, in un caso, la falce, il martello e il kolchoz e, nell’altro, la spada,
l’aratro e il kibbutz. La religione
ebraica, da parte sua, sotto l’apparenza lambiccata della masora o del pilpul, non
si perde in queste fantasticherie; essa mira basso per mirare giusto; essa fa
assegnamento sul reale; sotto la copertura di stravaganze talmudiche e
prestidigitazioni intellettuali o verbali, si vede che essa fa soprattutto lega
con il denaro, il re dollaro, il Vitello d’Oro e le blandizie della società dei
consumi. Chi può credere che quei valori perderanno un giorno prossimo futuro
parte del loro potere? E, peraltro, in che modo la scomparsa dello Stato
d’Israele provocherebbe conseguenze nefaste per il mito dell’«Olocausto»? Al
contrario, milioni di ebrei, costretti a raggiungere i paesi ricchi
dell’Occidente o a ritornarvi, non perderebbero l’occasione di gridare al
«Secondo Olocausto» e, di nuovo e ancora più forte, accuserebbero tutto il
mondo di questa nuova prova imposta al popolo ebraico, che bisognerebbe allora
«risarcire».
Infine, la religione
ebraica – lo si vede anche troppo bene con i racconti dell’«Olocausto» – si
ancora in ciò che vi è forse di più profondo nell’uomo: la paura. È qui la sua
forza. Qui sta la sua possibilità di sopravvivenza malgrado tutti i rischi e
malgrado tutti i colpi di maglio sferrati contro i suoi miti dal revisionismo
storico. Giocando con la paura, i professionisti del giudaismo vincono ad ogni
colpo.
Io sottoscrivo la
constatazione del sociologo e storico Serge Thion 60
per il quale
Il revisionismo storico, che
ha vinto tutte le battaglie intellettuali da venticinque anni a questa parte,
perde ogni giorno la guerra ideologica. Il revisionismo si scontra con
l’irrazionale, con un pensiero quasi religioso, con il rifiuto di prendere in
considerazione ciò che proviene da un polo non ebraico; noi ci troviamo in
presenza di una sorta di teologia laica di cui Elie Wiesel è il sommo sacerdote
internazionale consacrato dall’attribuzione di un premio Nobel.
IL FUTURO TRA REPRESSIONE E INTERNET
I nuovi venuti del
revisionismo non dovranno cullarsi nelle illusioni. Il loro compito sarà arduo.
Lo sarà forse meno che per Paul Rassinier e i suoi successori più diretti? La
repressione sarà forse meno feroce?
Personalmente, ne
dubito. Tuttavia, nel mondo, il cambiamento degli equilibri politici e delle
tecniche della comunicazione darà forse alle minoranze la possibilità di farsi
sentire meglio che in un recente passato. Grazie a Internet, per i revisionisti
sarà forse più facile eludere la censura e le fonti d’informazione storiche
diventeranno probabilmente più accessibili.
Resta il fatto che in
questa fine secolo e fine millennio l’uomo è chiamato a vivere la strana
esperienza di un mondo in cui libri, giornali, radio e catene televisive sono,
più che mai, strettamente controllate dal potere del denaro o dalla polizia del
pensiero, mentre, parallelamente, si sviluppano, a velocità crescente, nuovi
mezzi di comunicazione che sfuggono, in parte, ad ogni controllo. Sembrerebbe
un mondo a due facce: una s’irrigidisce ed invecchia, l’altra ha l’insolenza
della giovinezza e guarda verso il futuro. Si osserva lo stesso contrasto nella
ricerca storica, per lo meno quella che la polizia del pensiero sorveglia: da
un lato, gli storici ufficiali, che moltiplicano le opere sull’«Olocausto» o la
Shoah, si rinchiudono nel campo delle
credenze religiose o del ragionamento cavilloso in completo isolamento, mentre,
dall’altro, degli spiriti indipendenti si sforzano di non osservare che i
precetti della ragione e della scienza; grazie a questi ultimi, la libera
ricerca storica manifesta, in particolare su Internet, una vitalità
impressionante.
I sostenitori di una
storia ufficiale protetta e garantita dalla legge saranno, per sempre,
condannati a trovarsi davanti i contestatori di una verità d’ufficio. Gli uni
hanno, con l’età, il potere e il denaro; gli altri, un vero e proprio futuro.
UNA REPRESSIONE CHE S’AGGRAVA
Se c’è un punto su cui
la presente opera può apportare tanta informazione ai revisionisti quanta agli
antirevisionisti, è quello della repressione che subiscono i primi a causa dei
secondi.
Ogni revisionista sa a
proprie spese che cosa gli costa esprimersi su un argomento tabù, ma non ha
sempre coscienza di ciò che subiscono nello stesso momento i suoi simili in
altri paesi oltre al suo. Gli antirevisionisti, dal canto loro, minimizzano
sistematicamente l’ampiezza delle loro azioni repressive; essi non pensano che
ai propri tormenti, paragonabili a quelli di Torquemada e dei Grandi
Inquisitori: essi devono colpire, colpire sempre; il braccio si stanca, hanno i
crampi, soffrono, gemono; trovano che, se ci sono degli uomini da compiangere,
quelli sono i boia; si coprono gli occhi e si tappano gli orecchi per evitare
di vedere e di sentire tutte le loro vittime. A volte addirittura, si
stupiscono, forse in buona fede, quando si presenta loro l’elenco dei
revisionisti che essi sono riusciti a stroncare nella vita personale, familiare
o professionale, a rovinare, a subissare d’ammende o pene carcerarie, a ferire
gravemente, a vetrioleggiare, ad uccidere, a spingere al suicidio, mentre
all’inverso non si riesce a presentare un solo caso in cui un revisionista
abbia torto anche solo un capello ad uno dei suoi avversari.
Bisogna dire che la
stampa si adopera per dissimulare il più possibile certi effetti di questa
repressione generalizzata. In Francia, il giornale Le Monde a questo
proposito ha fatto una sua specialità, come si vedrà, di passare sotto silenzio
certi abomini che, se ne fossero stati vittime degli ebrei alla Vidal-Naquet,
avrebbero suscitato, su tutta la superficie del globo, cortei di protesta e
manifestazioni d’ogni genere.
Il meglio che si possa
attendere dagli apostoli della Shoah
sarà, tutt’al più, una messa in guardia contro eccessi d’antirevisionismo che
potrebbero arrecare danno alla buona fama degli ebrei e alla sacra causa della Shoah.
Nella valanga di tutte
le ultime misure di repressione adottate contro i revisionisti, si noterà, per
la Francia, la revoca da parte della pubblica Istruzione di Michel Adam, che
insegnava storia e geografia in un liceo in Bretagna; a cinquantasette anni,
con cinque figli a carico, si ritrova senza la minima risorsa e addirittura,
per il momento, senza il reddito minimo d’inserimento (RMI). Quanto a Vincent
Reynouard, anche lui revocato dalla pubblica Istruzione, gli è stata appena
inflitta una condanna definitiva dal tribunale di Saint-Nazaire, lo scorso 10
novembre, a tre mesi di prigione e a diecimila franchi d’ammenda per aver
diffuso l’edizione francese del Rudolf Gutachten (“Rapporto Rudolf”, analisi chimico-fisica delle «camere a gas»
di Auschwitz — N.d.T.); ventinove anni, sposato, padre di tre bambini in tenera
età, egli si ritrova, assieme alla moglie, senza la minima risorsa. Sempre in
Francia, il pastore Roger Parmentier viene escluso dal partito socialista per
aver dato il suo sostegno dinanzi ad un tribunale a Roger Garaudy, mentre
Jean-Marie Le Pen, da parte sua, è sottoposto ad indagine, in Francia come pure
in Germania, per una dichiarazione anodina sul «dettaglio» delle camere a gas.
A Barcellona, il 16
novembre, su istanza del Centro Simon Wiesenthal, di SOS-Razzismo-Spagna, delle
due comunità israelitiche della città e del Movimento ebraico liberale
spagnolo, il libraio Pedro Varela ha ricevuto una condanna definitiva a cinque
anni di carcere per «negazione dell’Olocausto» ed «incitamento all’odio
razziale» con gli scritti. Egli è anche condannato ad un’ammenda di trentamila
franchi e a delle gravose spese giudiziarie. I 20.972 libri e le centinaia di
cassette che compongono il fondo della sua libreria saranno distrutti… dalle
fiamme. La sua libreria era stata fatta segno d’attentati e d’incendi. A più riprese,
erano stati aggrediti il suo dipendente o lui stesso. Il Centro Simon
Wiesenthal tenterebbe oggi di ottenere l’annullamento del dottorato di storia
concesso a Pedro Varela più di dieci anni fa 61.
In Germania, si
sequestrano e si bruciano sempre più spesso scritti revisionisti. Gary Lauck
(cittadino americano estradato dalla Danimarca in Germania), Günter Deckert e
Udo Walendy vegetano sempre in carcere e possono ritenersi fortunati se non si
prolunga la loro incarcerazione con il minimo pretesto. Erhard Kemper, di
Münster, dopo un anno di prigione e sotto la minaccia di nuove e pesanti pene
che lo terrebbero in carcere probabilmente fino alla fine della sua vita, ha
dovuto rifugiarsi nella clandestinità. Altri Tedeschi o Austriaci vivono in
esilio.
In Canada, continua il
calvario di Ernst Zündel e dei suoi amici dinanzi ad uno di questi tribunali ad hoc, detti «commissioni dei diritti
umani», dove ci si fa, allegramente, beffe dei normali diritti di difesa; per
esempio, uno ha il divieto di sostenere che ciò che ha scritto corrisponde ad
una verità verificabile; queste commissioni non si preoccupano della verità; a
loro interessa solo sapere se ciò che è scritto arreca o no dispiacere ad
alcuni! Altre commissioni speciali collegate con l’Intelligence Service del
Canada, prendono le decisioni, nel caso dei revisionisti, a porte chiuse in
base ad un fascicolo non comunicato all’interessato. Nel 1999, Ottawa adotterà
una legge antirevisionista che autorizza la polizia a sequestrare a domicilio
qualsiasi libro o materiale che potrebbe,
secondo la polizia stessa, propagare il revisionismo; questa stessa legge
stipulerà che i tribunali allineeranno la loro prassi a quella delle
commissioni ad hoc e non
permetteranno più all’accusato di difendersi invocando la verità di ciò che
egli ha scritto 62.
Dappertutto nel mondo le
associazioni ebraiche moltiplicano le iniziative per l’adozione di una legge
antirevisionista specifica. Recentemente, in occasione di una conferenza
riunita a Salonicco, l’Associazione internazionale degli avvocati e giuristi
ebrei ha reclamato l’instaurazione in Grecia di una tale legge ed ha fatto
sapere che terrà delle conferenze identiche in altri venti e più paesi 63.
IL DOVERE DI RESISTERE
Quali che possano essere
le tempeste e le vicissitudini presenti o a venire, lo storico revisionista
deve mantenere la rotta. Al culto di una memoria tribale fondata sulla paura,
la vendetta e il lucro, egli preferirà la ricerca ostinata dell’esattezza. In
questo modo, anche senza volerlo, egli renderà giustizia alle vere sofferenze di tutte le vittime della seconda guerra mondiale. E, da questo punto
di vista, sarà lui ad evitare qualsiasi discriminazione di razza, di religione,
di comunità. Soprattutto, rifiuterà l’impostura suprema che ha coronato questo
conflitto: quella del processo di Norimberga, del processo di Tokyo e di altri
mille processi del dopoguerra in occasione dei quali, ancora oggi, il
vincitore, senza dover rendere il minimo conto dei propri crimini, si arroga il
diritto di perseguire e condannare il vinto.
Contrariamente alla
visione romantica di Chateaubriand, lo storico non è affatto «incaricato della
vendetta dei popoli» e, ancor meno, della vendetta di un popolo che si pretende
eletto da Dio.
Su qualunque argomento,
lo storico in generale e lo storico revisionista in particolare non hanno altra
missione che di verificare se ciò che si dice è esatto. Si tratta qui di una
missione elementare, ovvia, ma – l’esperienza insegna – pericolosa.
3 dicembre 1998
****
Note
1 Queste parole sono di
Karl Schlögel, nell’assumere la difesa di Gabor Tamas Rittersporn accusato da
Maxime Leo (“Holocaust-Leugner im Berliner
Centre Marc Bloch”, Berliner Zeitung, 12 febbraio 1998) di aver dato il
suo sostegno alla libertà d’espressione di Robert Faurisson nel 1980 (“Eine Jagdpartie. Wie man einen
Wissenschaftler ruiniert”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 18 febbraio
1998, p. 42).
2 «Nel luglio 198[6],
la Knesset votò una legge che vietava la negazione del Genocidio: “La
diffusione, scritta o orale, di opere che negano gli atti commessi durante il
periodo del regime nazista – crimini contro il popolo ebraico, crimini contro
l’umanità – nonché i discorsi che minimizzano l’importanza di questi atti allo
scopo di difendere coloro che li hanno perpetrati, e il sostegno o
l’identificazione con i colpevoli sono passibili di pena detentiva di cinque
anni”. Fu respinta una proposta di elevare la pena a dieci anni di detenzione.
Così lo sterminio degli Ebrei non costituiva più un argomento di ricerca
storica; quest’evento era stato, in qualche modo, stralciato dalla Storia
stessa, ed era diventato un dogma nazionale, protetto dalla legge, che godeva
di uno stato giuridico simile a quello del credo religioso, persino più
elevato: la massima pena quanto a “grossolanità” nei confronti della
sensibilità o della tradizione religiosa – compresa probabilmente la negazione
dell’esistenza di Dio – è di un anno di carcere» (Tom Segev, Le Septième
Million. Les Israéliens et le Génocide, Liana Levi, 1993 [uscito nel 1991 in Israele], p. 535).
3 Bulletin quotidien
d’informations de l’Agence télégraphique juive, 2 giugno 1986, pp. 1, 3.
4 Ved. Robert
Maxwell , “J’accuse” [in francese nel testo], Sunday Mirror, 17 luglio 1988, p. 2.
5 I «bambini ebrei [erano]
gettati vivi nei crematori» (Pierre Weill, direttore della SOFRES [omologo
francese del CENSIS — N.d.T.], “L’anniversaire
impossible”, Le Nouvel Observateur, 9
febbraio 1995, p. 53).
6 «È d’altronde
interessante […] sottolineare che il ghetto è storicamente
un’invenzione ebraica» (Nahum Goldmann, Le
Paradoxe juif, Stock, Parigi 1976, pp. 83-84); ved. anche Pierre-André
Taguieff, “L’identité juive et ses
fantasmes”, L’Express, 20-26 gennaio 1989, p. 65.
8 Ibid. Nel 1992, cioè molto tempo dopo la «fine degli anni ’70», un
giovane revisionista californiano d’origine ebraica, David Cole, si presenterà
come scopritore delle falsificazioni della «camera a gas» di Auschwitz-I. In un
video mediocre, egli mostrerà, da una parte, la versione delle guide del museo
(questa camera a gas è autentica) e, dall’altra, la versione di un responsabile
del museo, Franciszek Piper (questa camera a gas è «very similar» [molto
simile] all’originale).
Fino a qui niente di nuovo. Il guaio è che D. Cole ed i suoi amici hanno poi di
gran lunga esagerato – per non dire di più – quando sono arrivati a pretendere
che F. Piper aveva riconosciuto che c’era stata «frode». Effettivamente, c’era
stata frode, ma purtroppo D. Cole non aveva saputo dimostrarlo perché mal
conosceva il dossier revisionista.
Egli avrebbe potuto confondere definitivamente F. Piper mostrandogli, con la
videocamera, le mappe originali, che io avevo scoperto nel 1975/1976 e
pubblicato «alla fine degli anni ’70». Si vede molto bene che l’attuale pretesa
«camera a gas» è la risultante di un certo numero di truccature del luogo alle
quali si è proceduto dopo la guerra. Per esempio, i quattro pretesi «orifizi di scarico dello Zyklon B» praticati nel soffitto sono stati praticati – in modo
molto grossolano e maldestro – dopo la guerra: i ferri per il cemento sono
stati spezzati dai comunisti polacchi e lasciati così come stavano.
9 R. J. van Pelt e D.
Dwork, Auschwitz, 1270 to the Present,
Yale University Press, Londra 1996, pp. 363-364, 367, 369.
10 J.-C. Pressac, “Enquête sur les chambres à gaz, Auschwitz,
la Solution finale”, collezioni du mensile L’Histoire, n. 3, Parigi, ottobre 1998,
p. 41.
11 Jacques Baynac su Le
Nouveau Quotidien (di Losanna), 2 settembre 1996, p. 16, e 3 settembre 1996,
p. 14; ved. prima di quella data J. Baynac e Nadine Fresco, “Comment s’en débarrasser?”, Le Monde,
18 giugno 1987, p. 2.
12 A volte si è
sostenuto che la cifra di sei milioni trovava origine in un articolo di
giornale del … 1919: Martin H. Glynn, “The
Crucifixion of Jews Must Stop!”. Detto M. H. Glynn lanciava una richiesta di
fondi in favore di sei milioni di ebrei europei che, diceva, erano affamati e
perseguitati e vivevano così un «olocausto», una «crocifissione». La parola
«olocausto» nella sua accezione di «disastro» è attestata in inglese nel XVII
secolo; qui, nel 1919, designava le conseguenze di una carestia descritta come
un minaccioso disastro. Nel 1894, Bernard Lazare applicava la parola ai
massacri degli ebrei: « …di tanto in
tanto, re, nobili o borghesi offrivano ai loro schiavi un olocausto di ebrei […]
si offrivano degli ebrei in olocausto» (L’Antisémitisme,
son histoire et ses causes, L. Chailley, Parigi 1894, ried. La Vieille
Taupe, Parigi 1985, pp. 67, 71).
13 «Till now six times a million Jews from Europe and Russia have been
destroyed», Lucy S. Dawidowicz, in una compilazione, A Holocaust Reader, Behrman House, New York 1976, p. 327; si tratta
di lettere tradotte dall’ebraico e pubblicate a New York nel 1960 con il titolo
Min hametzar.
14 Io sono debitore di
questa scoperta allo storico tedesco Joachim Hoffmann; in Stalins Vernichtungskrieg 1941-1945, Verlag für Wehrwissenschaften,
2a edizione, Monaco 1995, p. 161 e n. 42 da p. 169, egli segnala che Ilya
Ehrenburg dà questa cifra in un articolo di Soviet War News del 4 gennaio
1945 intitolato: “Once Again Remember!”.
Cercando di verificare questo punto all’Imperial War Museum di Londra, non ho
trovato niente con quella data; in compenso, ho trovato il testo segnalato da
J. Hoffmann con un altro titolo e con un’altra data: con il titolo “Remember, Remember, Remember” e in data
22 dicembre 1944, pp. 4-5. Bisognerebbe forse dedurne che Soviet War News era
pubblicato sotto diverse forme?
15 Ved. “Number of Living Holocaust Survivors”, Adina Mishkoff, assistente amministrativa
presso l’AMCHA (National
Israeli Center for Psychosocial Support of Survivors of the Holocaust and the
Second Generation), Gerusalemme, 13
agosto 1997 (cifre fornite dal gabinetto del primo ministro israeliano).
16 Il misero e fallace
plastico (con le sue pretese aperture per lo Zyklon nel tetto mentre tali
aperture, lo si constata ancora oggi, non sono mai esistite, e con le sue
pretese colonne forate mentre le colonne di cemento, come si può ancora vedere,
erano piene) è riprodotto su un altro libro-guida pubblicato nel 1995; ved.
Jeshajahu Weinberg e Rina Elieli, New York, Rizzoli, pp. 126-127; in compenso,
questo libro-guida non riproduce ciò che, nel precedente libro-guida, quello di
M. Berenbaum, era presentato come il corpo del reato per eccellenza delle
gassazioni omicide: una pretesa porta di camera a gas a Majdanek.
17 Le Nouvel
Observateur, 30 settembre 1993, p. 96.
18 Tous les fleuves vont à la mer (Mémoires 1), Le Seuil, Parigi 1994,
p. 97.
19 The Holocaust and History. The Known, the Unknown, the Disputed and the
Reexamined, opera realizzata sotto la direzione di Michael Berenbaum e
Abraham J. Peck in associazione con l’United States Holocaust Memorial Museum
(Washington), Bloomington e Indianapolis (Indiana, Stati Uniti), Indiana
University Press 1998, xv-836 p., 55 contributi.
20 Ivi, p. 15.
21 Ved. sopra.
22 A proposito di
Timisoara, ved. nella presente opera, vol. III, pp. 1141-1150, il mio studio del libro di Michel Castex, Un Mensonge
gros comme le siècle. Roumanie, histoire d’une manipulation, Albin Michel,
Parigi 1990.
23 Il preteso plastico
di crematorio con «camera a gas» che si presenta al Museo nazionale di
Auschwitz e quello che si può vedere all’Holocaust Memorial Museum di
Washington sono talmente succinti per quanto concerne proprio la «camera a gas»
e talmente in contraddizione con le vestigia che si possono esaminare sul
posto, ad Auschwitz-Birkenau, che è ridicolmente facile provare che questi due
plastici sono pure fantasie; ved. nota 16 sopra.
24 Ved. Weltwoche (Zurigo), 27 agosto e 3
settembre 1998; Nicolas Weill, “La mémoire
suspectée de Binjamin Wilkomirski”, Le Monde, 23 ottobre 1998, p. V.
25 Donald Watt, Stoker: the story of an Australian soldier
who survived Auschwitz-Birkenau, Simon & Schuster, New York 1995.
26 Fred Sedel, Habiter les ténèbres, La Palatine,
Parigi-Ginevra 1963, e A.-M. Métaillié, Parigi 1990.
27 Vivre c’est vaincre (Maulévrier, Maine-et-Loire,
Hérault-Editions 1988) è presentato come se fosse stato scritto nel 1945 e
stampato nel 3° trimestre del 1946. Nel 1988, avviene una riedizione da parte
di Hérault-Editions con gran chiasso. La fascetta pubblicitaria reca scritto:
«Sono stato testimone dell’Olocausto». È su Le Figaro del 15 maggio 1996 (p.
2) che il generale Rogerie dichiarerà di aver «assistito alla Shoah a Birkenau». La descrizione,
estremamente succinta, che gli è fatta delle «camere a gas» e dei forni è
contraria alla versione oggi ammessa: il suo «testimone» ha parlato di gas che
arrivava dalle cipolle delle docce e
di forni elettrici (p. 75).
28 A. Rogerie, Vivre c’est vaincre, pp. 70, 85.
29 Ivi, p. 82.
30 Ivi, p. 83
31 Ivi, p. 84
32 Ibidem.
33 Ivi, p. 87.
34 Samuel Gringauz, “Some Methodological Problems in the Study of
the Ghetto”, Jewish Social Studies / A Quarterly Journal Devoted to
Contemporary and Historical Aspects of Jewish Life, volume XII, New York 1950,
p. 65.
35 Op. cit., pp. 148-149.
36 They Have Their Exits, Hodder and Stoughton, Londra 1953, p. 172.
37 Di un testo di più di
duecentocinquanta parole si ricorderà in particolare: «Più di dodici milioni di
morti! Altrettanti individui che non sono nati! Ancora più mutilati, feriti,
vedove e orfani! Per innumerevoli miliardi di distruzioni varie. Fortune
scandalose edificate su miserie umane. Innocenti alla forca. Colpevoli agli
onori. La vita atroce per i diseredati. Il formidabile conto da pagare».
Altrove si legge: «Bisogna migliorare lo spirito delle Nazioni migliorando
quello degli individui con un’istruzione più sana e largamente diffusa. Bisogna
che il popolo sappia leggere. E soprattutto capire il valore di ciò che legge».
Il testo termina con: «Sia maledetta la guerra. Ed i suoi artefici!»
38 Ved. Christiane
Gallus, “Une pandémie qui a fait trois
fois plus de victimes que la guerre de 1914-1918”, Le Monde, 31 dicembre
1997, p. 17.
39 Pierre Kaufmann, “Le danger allemand”, Le Monde, 8
febbraio 1947.
40 Ved. Mark Weber, “Bergen-Belsen Camp: The Suppressed Story”, The Journal of Historical Review, maggio-giugno 1995, pp. 23-30.
41 Tale fu il caso, per
esempio, di Bartley C. Crum, Behind the
Silken Curtain, Simon & Schuster, New York 1947, p. 114.
42 Arthur Suzman e Denis
Diamond, Six Million Did Die: the truth
shall prevail, pubblicato dal South
African Jewish Board of Deputies, Johannesburg 1978, 2a edizione, p. 18.
43 Nel 1945, A.
Hitchcock, nato nel 1899, era già noto. Per i suoi gusti macabri o morbosi, per
la sua arte nel «manipolare il pubblico», per lo strano fascino che il gas
esercitava sulla sua mente, si leggerà Bruno Villien, Hitchcock, Colonna, Parigi 1982, pp. 9-10.
44
Le Figaro, 24 ottobre 1997, p. 10.
46 Le Figaro, 16 gennaio 1995, p. 29.
47 Libération, 18 dicembre 1995, p. 41.
49
Lettera a Nation Review (Australia), 21 giugno 1979, p. 639.
51
Avv. Bernard Jouanneau, La Croix, 23 settembre 1987, pag. 2.
52 The Globe and Mail (Toronto, Canada), 2 giugno 1998, pag. A1, 15. Edgar Bronfman,
presidente del Congresso mondiale ebraico, è il re dell’alcool e della
pornografia. Egli presiede il gruppo Seagram e, a Hollywood, possiede la
Universal Studios. Ha appena ricevuto, da una giuria di uomini politici
americani, l’onorificenza Silver Sewer (Cloaca d’argento), in particolare per i reality
show dell’ebreo Jerry Springer, trasmissioni che mettono in scena
spogliarelliste incinte, giovani prostitute che si picchiano con i loro
protettori, beccamorti che copulano con i cadaveri, ecc. (Financial Times,
21-22 marzo 1998, p. 2).
53
B. Lazare, L’Antisémitisme…, prima
pagina del primo capitolo.
54
Ivi, p. 27.
55 A. Kaspi, Les Juifs pendant l’Occupation,
ed. riveduta ed aggiornata, Le Seuil, Parigi 1997 [1991],
p. 109, n. 27
56 Io sento a volte dire
che rischia di costare più caro ad un ebreo che ad un non ebreo fare
professione di revisionismo. I fatti smentiscono quest’asserzione. Non un ebreo
è stato condannato in tribunale per revisionismo, nemmeno Roger-Guy Dommergue
(Polacco de Menasce) che, da anni, moltiplica i più veementi scritti contro ciò
che egli chiama le menzogne dei suoi «congeneri». Fino ad ora non si è osato
applicargli né la legge Pleven (1972) né la legge Fabius-Gayssot (1990). È
opportuno tuttavia ricordare il caso del giovane revisionista americano David
Cole che mostra a quale violenza possono ricorrere certe organizzazioni
ebraiche per far tacere degli ebrei che hanno preso partito per la causa
revisionista.
57 Un ricercatore
indipendente, che non si proclama pertanto tale, può indirettamente contribuire
al revisionismo con la semplice qualità del suo lavoro. Farò qui un nome,
quello di Jean Plantin, responsabile di una pubblicazione il cui titolo, da
solo, indica il carattere erudito: Akribeia
– tale è il titolo di questa pubblicazione semestrale – significa «esattezza»,
«cura minuziosa» e ha dato in francese la parola
acribie (qualità dell’erudito che
lavora con un’estrema cura), AKRIBEIA,
45/3, Route de Vourles, 69230 Saint-Genis-Laval, Francia.
58 Ved. la pertinente
analisi di Guillermo Coletti “The Taming
of Holocaust Revisionism” [Domare il revisionismo dell’Olocausto], 13 novembre 1998, Anti-Censorship News Agency.
59 «L’oubli n’est pas notre principale vertu» (il presidente del
Concistoro di Tolosa, secondo Le Figaro, 9 ottobre 1997, p. 10).
60 S. Thion è, in
particolare, autore di un’opera revisionista che reca il titolo eloquente di Une Allumette sur la banquise. Un’opera
revisionista, anche se il suo contenuto sembra essere dinamite, non apporta
forse, in fin dei conti, maggiore chiarezza e calore di un fiammifero «nella
notte polare, sulla banchisa delle idee congelate» (p. 90).
61 Ved. “Un libraire espagnol condamné pour 'apologie
du génocide'”, Le Monde, 19 novembre 1998, p. 3; Emmanuel Ratier, Faits & Documents, 1° dicembre 1998, p. 12.
63
Athens
News, 28 giugno 1998, p. 1