“Il problema delle camere a gas [a]”
o “la diceria di Auschwitz”
Nessuno contesta l’utilizzo dei
forni crematori in alcuni campi tedeschi. La frequenza stessa delle epidemie,
in tutta l’Europa in guerra, esigeva la cremazione, per esempio di cadaveri di
ammalati di tifo (vedere le foto dell’epoca).
È l’esistenza delle “camere a
gas”, autentici mattatoi chimici, che viene contestata. Dal 1945, questa
contestazione va aumentando. I grandi mezzi d’informazione non l’ignorano più.
Nel 1945, la scienza storica
ufficiale afferma che delle “camere a gas” avevano funzionato, tanto nel
vecchio Reich quanto in Austria, tanto in Alsazia quanto in Polonia. Quindici
anni dopo, nel 1960, essa rivedeva il suo giudizio. “Prima di tutto” (?) le
“camere a gas” non avevano funzionato se non in Polonia [b]. Questa lacerante revisione del 1960 annullava le mille
“testimonianze”, le mille “prove” delle pretese gasazioni ad Oranienbourg, a
Buchenwald, a Bergen-Belsen, a Dachau, a Ravensbrück, a Mauthausen. Dinnanzi
gli apparati giudiziari inglesi o francesi i responsabili di Ravensbrück
(Suhren, Schwarzhuber, Dr Treite) avevano confessato l’esistenza d’una “camera
a gas” di cui avevano anche descritto, in modo vago, il funzionamento. Scenario
comparabile per Ziereis, a Mauthausen, o per Kramer a Struthof. Dopo la morte
dei colpevoli, si scoprirà che queste gasazioni non erano mai avvenute.
Fragilità delle testimonianze e delle confessioni!
Nemmeno le “camere a gas” di
Polonia – si finirà bene per ammetterlo – hanno avuto più realtà. È agli
apparati giudiziari polacchi e sovietici che noi dobbiamo l’essenziale delle
nostre informazioni su di esse (vedere, ad esempio, l’incredibile confessione
di R. Höss, Kommandant in Auschwitz: Autobiographische Aufzeichnungen).
Il visitatore attuale d’Auschwitz
o di Majdanek scopre, in fatto di “camere a gas”, i locali in cui ogni
gasazione sarebbe finita in catastrofe per i gasatori ed il loro entourage.
Un’esecuzione collettiva con il gas, anche ammesso che sia praticabile, non
potrebbe identificarsi con una gasazione suicida o accidentale. Per gasare un
solo prigioniero alla volta, mani e piedi legati, gli Americani impiegano un
gas sofisticato, e questo in uno spazio ridotto, da cui il gas, dopo l’uso, è
aspirato per essere poi neutralizzato. Pertanto, come si poteva, ad esempio ad
Auschwitz, far contenere duemila (e perfino tremila) uomini in uno spazio di
duecentodieci metri quadrati (!), poi riversare (!) su costoro dei granuli di
un banale e violento insetticida chiamato Zyklon B; infine, immediatamente dopo
la morte delle vittime, inviare senza maschera antigas, in questo locale saturo
d’acido cianidrico, una squadra incaricata di estrarre i cadaveri impregnati di
cianuro? Dei documenti troppo poco conosciuti [c] mostrano d’altro canto: 1° che questo locale, che i Tedeschi avrebbero fatto
saltare, prima della loro partenza, non era che un tipico obitorio (Leichenkeller),
interrato (per metterlo al riparo dal calore) e provvisto d’una sola piccola
porta d’entrata e d’uscita; 2° che lo Zyklon B non poteva eliminarsi con una
ventilazione accelerata e che la sua evaporazione richiedeva almeno ventun’ore.
Mentre sui crematori d’Auschwitz si possiedono migliaia di documenti, ivi
comprese le fatture, fino all’ultimo pfennig,
non si possiede sulle “camere a gas”, che, sembra, fiancheggiavano questi
crematori, né un ordine di costruzione, né un progetto, né un ordine, né uno
schema, né una fattura, né una foto. Durante i cento processi (Gerusalemme,
Francoforte, ecc.) non si è potuto produrre nulla.
“Io ero ad Auschwitz. Non vi si è
trovata una ‘camera a gas’”. Si ascoltano appena i testimoni a discarico che
osano pronunciare questa frase. Li si persegue in giudizio. Ancora nel 1978,
chiunque in Germania reca testimonianza a favore di Thies Christophersen,
autore di La Fandonia di Auschwitz *,
rischia una condanna per “oltraggio alla memoria dei morti”.
Dopo la
guerra, la Croce Rossa internazionale (che aveva condotto la sua inchiesta
sulla “diceria di Auschwitz” [d], il
Vaticano (che era ben informato sulla Polonia), i nazisti, i collaboratori,
tutti dichiaravano con molti altri: “Le ‘camere a gas’? non ne sapevamo nulla.”
Ma come si può esser a conoscenza di cose che non sono esistite?
Il
nazismo è morto, è ben morto, con il suo Führer. Oggi resta la verità. Osiamo
proclamarla. L’inesistenza delle “camere a gas” è una buona novella per la
povera umanità. Una buona novella che si avrebbe torto a tenere ancora per
molto tempo nascosta [e].
29 dicembre 1978
Traduzione a cura di Germana Ruggeri
Note
[a] L’espressione è di Olga Wormser-Migot,
Le Système concentrationnaire nazi,
1968, Presses universitaires de France, 1968.
[b] “Keine Vergasung in Dachau”, del Dr Martin Broszat, direttore
dell’istituto di storia contemporanea di Monaco.
[d] CICR, Documents sur
l’activité du Comité international de la Croix-Rouge..., serie II, n° 1, che
riproduce parzialemente (io ho copia del testo integrale confidenziale) il
documento n° 9925: Visite au commandant du camp d’Auschwitz d’un délégué du
CICR (settembre 1944), p. 91 e 92. Una frase capitale di questo documento è
stata abilmente amputata di tre parole nel libro di Marc Hillel, Les
Archives de l'espoir, p. 257, e la frase più importante (“Gli stessi
detenuti non ne hanno parlato”) è stata saltata.
[e] Tra la ventina di autori
che negano l’esistenza delle “camere a gas”, citiamo Paul Rassinier, ex
deportato (Il Vero Processo Eichmann, ossia Gli incorreggibili vincitori),
e soprattutto l’Americano A. R. Butz per il suo rimarchevole libro The Hoax
of the Twentieth Century (La
Mistificazione del XX° secolo).
* La Sfinge, Parma, 1984
(NdT).